mercoledì 30 luglio 2014

voglio una vacanza che non abbia fine

Peso: 72,3 kg

Ritorno in città alquanto deprimente: il tempo è ancora brutto e io sono ancora grassa.
In realtà non sono grassa come sospettavo, come addirittura credevo di meritarmi dopo aver mangiato senza ritegno, ma questa volta ne sono rimasta meno stupita: evidentemente in vacanza il mio metabolismo riprende a funzionare come quello delle persone normali e non va a basso consumo, come al solito.
Ben venga, dato che, come dicevo, le vacanze sono da sempre - fin dai primi periodi dopo l'anoressia - il mio momento di pausa dall'ossessione per il peso. Complice la difficoltà di controllare il cibo come quando sono a casa mi impongo di non pensarci e assaggio, sperimento, stuzzico fuori pasto come se non ci fosse la bilancia ad aspettarmi al varco, come se non dovessi poi fare i conti con settimane di rimorsi e sensi di colpa. Ma tant'è, sei giorni a mangiare carboidrati per cena, salsine e formaggi e seicento grammi in meno rispetto alla mattina della partenza. Il miracolo del viaggiatore ciccione.
Niente mare, ovviamente. Quest'anno me lo risparmio, forse ci andrò in inverno, in un posto abbastanza lontano da occhi conosciuti e indiscreti, o, ancor meglio, non ci andrò affatto. Non sono un'amante del mare; mi piace vedere posti nuovi, assaggiare i piatti tipici, vedere panorami mozzafiato, ma la vita da spiaggia mi annoia in fretta, e mi fa schifo la sabbia nei capelli, e odio sudare. 
Tra l'altro mi sembra che ultimamente la mia sudorazione sia impazzita: non è mai stato un mio problema e invece negli ultimi tempi sudo un sacco, soprattutto sul viso, il che fa abbastanza schifo, visto che è l'unica parte del corpo che non si può neanche nascondere sotto i vestiti. Poi paradossalmente il resto del corpo non suda! Infatti sono alla disperata ricerca di qualche metodo per alleviare questo problema, se avete qualche consiglio/rimedio non esitate a confessarmelo!
Comunque, dicevo, il ritorno a casa ha sempre l'effetto di una sberla, di una secchiata d'acqua ghiacciata. Pomeriggio pigro a sfoltire le foto della vacanza e a misurare con lo sguardo la circonferenza delle cosce; alla fine cancello quasi tutte quelle in cui mi si vede a figura intera, lasciando solo quelle in primo piano, qualcuna a mezzo busto dove non mi si vedano le braccione ma solo le spalle ossute. Preferisco fotografare che essere fotografata, per fortuna. Io odio rivedermi in foto, soprattutto nelle foto delle vacanze. Perché quando l'incanto finisce e sono sola nella mia stanza quel vestito che nello specchio dell'albergo sembrava mi stesse così bene, la maglietta che cadeva perfettamente a nascondere i fianchi, i pantaloni che ingannano la vista scompaiono e vedo solo tonnellate di grasso, braccia flosce e vestiti troppo piccoli per contenere tutta la mia ciccia. Come ho fatto ad uscire conciata in quel modo e persino a lasciarmi sfuggire un sorriso, incrociando il mio riflesso in una vetrina? Dovevo avere delle fette di prosciutto davanti agli occhi spesse almeno come quelle che ho mangiato.
Vorrei riuscire a non pensare a tutto questo anche per il resto dell'anno, e invece mi è concessa un po' di spensieratezza solo per qualche giorno ogni tanto. Vorrei vivere la mia vita in un'eterna vacanza.
Per fortuna tra qualche giorno riparto, anche se questa volta resto in Italia. Sempre niente mare, o almeno niente spiaggia, e sempre tanto cibo di cui gioire e pentirmi, in un eterno circolo vizioso.  

domenica 20 luglio 2014

DCA e isolamento - la riflessione della domenica pomeriggio


Il post di Softy di oggi mi ha fatto molto riflettere. Softy racconta di come, prima della malattia, facesse la vita allegra e spensierata che ogni ragazzina dovrebbe fare e il peso non era un ostacolo alla vita sociale, si scattava tante foto, si piaceva. Ora, venti chili più magra, si vergogna di mostrare il suo corpo, inventa scuse per non uscire e si chiude sempre più in se stessa. Mi ha fatto riflettere perché se c’è un comune denominatore che ho osservato in tutte le vicende di DCA che hanno coinvolto persone che conosco, che ho conosciuto proprio grazie a questi disturbi e che coinvolgono anche me è come alla malattia si accompagni sempre l’isolamento.
Pensiamo a quante belle cose faremo quando saremo magre. Pensiamo che andremo finalmente al mare senza farci troppe paranoie, che ci compreremo quel vestitino che c’è in vetrina da Zara e che fa sembrare grasso persino il manichino, che mangeremo la pizza senza doverci sentire in colpa, e invece, paradossalmente, succede il contrario.
Ricordo l’estate del 2008 come una delle più belle della mia vita: la prima vacanza da sola, gli incontri furtivi con i ragazzi, fare tardi tutte le sere, sbronze e risate con gli amici, aspettare l’amica che viene a prenderti in motorino e andare in piscina a fare le oche ridendo dei commenti volgari sui rispettivi sederi. Pesavo settantacinque chili, ero flaccida e grassissima, ma non m’importava. Mi scattavo delle foto in cui mi trovavo bella, o semplicemente non mi trovavo brutta, e pubblicavo massicciamente le mie foto su facebook, senza curarmi di tagliare le gambe, trovare un’inquadratura in cui le mie braccia non sembrassero giganti, le mie guance sformate dalla ciccia. 


Della primavera del 2009, quella dei 43 kg, non esistono praticamente foto. Le ultime risalgono alla gita di classe di marzo, 46 kg, con i jeans troppo larghi e il trench che mi ero fatta prestare dalla sorella di una mia amica, taglia nove anni, che ancora tirava sul seno. E per me era terribile, significava che ero ancora troppo grassa, volevo che tutti i vestiti mi andassero larghi, non solo i miei, anche quelli degli altri: qualsiasi vestito prodotto nel mondo doveva andarmi largo.



Non uscivo più, se non per andare a scuola o per andare a ballare, conscia che avrei bruciato calorie senza ingerirne. Agli inviti dei miei amici rispondevo con le scuse più variegate. Mi vergognavo di farmi vedere così grassa, avevo paura di trovarmi in situazioni che mi avrebbero fatta ingrassare ancora, e poi le situazioni troppo affollate mi facevano venire gli attacchi di panico e la tachicardia. Me ne stavo nella mia camera a chiedermi come mi fossi infilata in quel vicolo cieco, dove fosse finita la ragazzina solare che aspettava l’estate per tornare a casa solo a dormire, com’era possibile che l’avesse rimpiazzata quell’ameba che ero diventata. Più mi isolavo, più volevo stare sola. Vedevo gli altri uscire, divertirsi, vivere i loro diciott’anni, e io invece ero stanca come se fossi già vecchia e volevo solo dimagrire. Volevo diventare così magra da disintegrarmi e smettere di soffrire, ero stanca di avere problemi più grandi di me. Quante ragazzine soffrono di attacchi di panico, depersonalizzazione e sindrome depressiva? Io ero stufa di essere sempre triste, ipocondriaca e con il cuore che si metteva a sfarfallare senza ragione apparente nel cuore della notte. Cercavo la pace e mi sarebbe bastata anche la morte.

Poi le foto riprendono con l’estate inoltrata. In mezzo, la presa di coscienza che mi salvò dal ricovero: non volevo finire in ospedale, non volevo che mi succedesse quello che era successo a una mia amica, ricoverata in fin di vita un anno prima, a 29 kg, con l’artrite e l’esofago pieno di ulcere. Non volevo che mi rinchiudessero in una stanza in cui non avrei potuto vedere nessuno, e finalmente compresi che era sciocco che fossi io per prima a impormi da sola quella prigionia.


 Ricominciai ad uscire poco per volta, assaporando il ritorno ad una vita meritevole di essere vissuta. Un giorno, poi, all’improvviso, nella vetrina di un negozio mi vidi come mi vedevano gli altri: uno scheletro con la fronte calva, i denti ingialliti e gli occhi sporgenti. Cominciai a considerare il cibo una medicina, lo assumevo come avrei assunto un farmaco, osservando i miglioramenti sulla mia pelle coperta di eczemi, sugli zigomi meno sporgenti e soprattutto sui capelli, perché l’idea di diventare calva mi terrorizzava (ed era uno dei motivi per cui non uscivo più e mi facevo sempre la coda con una specie di riporto).

Perché vi racconto questa storia? Perché sono sicura che l’isolamento sia non solo una delle conseguenze della malattia, ma perché sono fermamente convinta che ne sia anche la causa. Ad un certo punto si innesta una sorta di circolo vizioso che ci porta a chiuderci sempre più in noi stesse, rifiutando l’aiuto o anche solo la compagnia di chicchessia. Ma più ci chiudiamo verso l’esterno più ci sentiamo sole e la solitudine è una spinta fortissima all’autodistruzione: mi faccio a pezzi, mi lascio morire di fame, tanto a nessuno importa.

Raccontiamo scuse agli amici, ai fidanzati, ai genitori. Li escludiamo dalla nostra vita spingendoli fuori dal nostro mondo per poterci crogiolare nel nostro dolore. Possiamo persino lamentarci della solitudine che ci siamo cercata.

Ho raccontato questa storia perché perdere peso è solo la manifestazione esteriore di un  disagio ben più profondo che non può - e non deve - essere risolto privandoci anche delle piccole cose che ci fanno stare bene. Non dobbiamo lasciare che la malattia diventi il nostro unico orizzonte chiudendo il mondo fuori dalla nostra stanza, tutti i disturbi mentali sono subdoli e diventano più forti se concediamo loro di impedirci di vivere. Si fa in fretta a dimenticare quante cose belle ci stiamo perdendo per paura di un attacco di panico o di dover mangiare più calorie di quanto programmato, ma non dobbiamo permettere che succeda. Dobbiamo rimanere sempre aggrappate al mondo che c’è fuori dalla nostra testa, perché è il primo passo per rientrarvi.

 E se siamo qui è perché sappiamo di poterlo fare, altrimenti non cercheremmo neanche il confronto. Invece leggiamo avidamente le parole di altre ragazze che vivono i nostri stessi drammi, combattono le nostre stesse lotte, ottengono i nostri stessi successi e siamo meno sole. Questo blog è molto importante per me e le vostre storie, le vostre parole, mi danno sempre la carica per non mollare. Ed oggi voglio ricambiarvi così, cercando di infondere in voi un po’ di quella forza che voi, nei vostri commenti, infondete sempre in me.

Vi abbraccio forte.

giovedì 17 luglio 2014

"ma quanti chili hai preso?" e altre sfortune

Peso: 72,8 kg

Sembra che l'universo intero complotti perché rimanga eternamente grassa. Ero pronta a ritornare finalmente alla mia amata palestra, avevo comprato dei nuovi shorts - i primi tempi mi vergognavo troppo di mostrarmi in pantaloncini, ma poi una mia amica dalle gambe magrissime mi ha confessato di non avere il coraggio di mettere gli shorts in palestra perché ha le cosce piene di cellulite e che io, invece, avrei dovuto metterli senza farmi tanti problemi. Al che io le ho detto che avrei barattato molto volentieri le mie cosce enormi per le sue sottilissimi, prendendomi allegramente tutta la sua cellulite, e alla fine tutte e due ci siamo rassegnate a denudare le cosce! - e caricato l'iPod, e invece mi sono ammalata.
Metà luglio, trenta gradi, esami finiti e io ho la febbre e la tonsillite. 
Oggi sono andata dal medico, perché tra una settimana devo partire e volevo farmi prescrivere un antibiotico che mi rimettesse in sesto, e uscendo ho incontrato una ragazza che avevo conosciuto agli incontri di sostegno di gruppo per ragazze con DCA che frequentavo nell'estate del 2009. E' stata lei a salutarmi per prima, mi ha trattenuta per un braccio e mi ha fermata dicendo "Oddio, ci ho messo un po' a riconoscerti! Ma cos'hai fatto? Sei diventata bellissima! Ti sei rifatta il seno? Come stai bene con i capelli lunghi, ma quanti chili hai preso?".
Lei è ancora magra. L'ultima volta che l'ho vista pesavo meno di cinquanta kg, avevo i capelli cortissimi (anche perché ne avevo pochissimi e li legavo tirandoli indietro per nascondere il cuoio capelluto) e le unghie ricostruite perché le mie non crescevano più. Però lei è ancora magra, sta meglio, non ha l'aria di chi è malata, ma è riuscita a rimanere magra, quasi come cinque anni fa.
"Quanti chili hai preso? Dieci?"
Le sembra persino di farmi un complimento. Sorride, è davvero contenta per me, non penso che mi stia prendendo in giro, e allora decido di metterla alla prova.
"No, veramente più di venti."
"Ma dai, non è vero! Quanto pesi, cinquantacinque? Sei perfetta così, stai troppo bene."
"No, ti giuro, quasi settanta."
Non ho neanche il coraggio di essere sincera fino in fondo, di dirle che peso più di settanta kg, quasi come prima della malattia. Lei mi osserva con aria critica, mi gira intorno, mi misura con gli occhi di chi sa misurare bene un corpo e scuote di nuovo la testa.
"No, cara, non dirmi bugie. Hai un corpo da paura, sembri un'altra persona." e sorride ancora, è orgogliosa di me, e nel suo sorriso leggo quella sensazione di ammirazione e sincera gioia che provavo anche io quando incontravo le ragazze con cui ero stata in cura e le vedevo guarite, o almeno uscite dalla fase più buia dei loro disturbi alimentari o comportamentali. Da qualche tempo invece cerco di evitare questi incontri casuali perché ho paura di provare invidia, come oggi, per quelle che ne sono uscite senza rinunciare alla taglia 40, e per paura di vedere nel loro sguardo un moto di compassione per la mia debacle.
"Certo che eravamo stupide." aggiunge, prima di salutarci.
Non so lei, ma io lo sono ancora. Terribilmente.




Comunque, ero vestita così, e l'unica cosa che notavo guardandomi allo specchio prima di uscire e che ho notato dopo aver scattato queste foto è l'enormità delle mie cosce, che addirittura sporgono oltre la linea della pancia.  

domenica 13 luglio 2014

perdere il controllo. prendere il controllo.

Peso: 73,1

Rieccomi. 
Riemergo dopo quasi due settimane di latitanza. Sono stata inghiottita dai libri - ho dato tre esami in dieci giorni e per due settimane non ho fatto altro che studiare e andare in palestra (dove continuavo a studiare, raccogliendo sguardi perplessi dalla maggior parte dei presenti) - e quando i libri mi hanno "risputata" sono stata travolta da un turbine di feste di laurea e cene/aperitivi/pranzi con gli amici che partono per le vacanze, quelli che sono tornati da altre città dopo gli esami e quelli che non vedevo da tempo che mi ha dato tregua solo oggi. Ora sono stremata e non so se sia più per i ritmi di studio disumani dell'ultimo mese o per quelli delle feste degli ultimi giorni.
Ad ogni modo sono stanca. E grassa. L'ultima settimana di esami ho abbandonato la palestra perché anche il breve tragitto per raggiungerla mi sembrava rubasse tempo al mio studio. Ad un certo punto, in preda alla disperazione e in balia dello stress, mi sono persino detta "Alla fine, chissenefrega" e ho saltato l'incontro con la bilancia per tre volte consecutive.
Mi sono voluta premiare (o punire, dipende dai punti di vista) per i risultati degli esami concedendomi una settimana di devasto. Colazioni al bar, pranzi ipercalorici, aperitivi a buffet tutte le sere della settimana appena conclusa, tranne una in cui sono andata al ristorante ed un'altra in cui ho cenato da un amico. Insomma, mi sono davvero rovinata. Ma con la soddisfazione e la determinazione  con cui mi abbuffavo, qualche anno fa. 
Per me l'abbuffata era una specie di rituale che addirittura programmavo. Se sapevo che i miei genitori avevano in programma di uscire facevo scorta di schifezze che tenevo nascoste finché non fossi rimasta finalmente da sola per godermi il momento.
E così, più o meno, è stato il mio rapporto col cibo in quest'ultima settimana: esclusivo, totalizzante, simbiotico. Al tavolo dell'aperitivo mi sono riempita il piatto oltre il limite della decenza e mi sono isolata per mangiare. Riuscivo a pensare solo al cibo, e anche le volte in cui ero a tavola con altre persone era come se fossi da sola, come se fossi di nuovo la diciottenne disturbata e solitaria che si rimpinzava seduta a gambe incrociate al centro della mia cameretta fino a sentire la pancia tirare sotto i vestiti. 
Ho mangiato senza ritegno, fin quasi a stare male. Mi sono abbuffata di pasta e farinacei e ho la pancia gonfia da tre giorni. Però andavo avanti, non mi importava neppure di fare schifo ed ingrassare! Non era neanche il ben noto "tantormai" a guidarmi, ma una sensazione più subdola e persuasiva che potrei riassumere nella domanda "a che pro?". A che pro fare tanti sacrifici per dimagrire se non puoi goderteli? Voglio dire, quando pesavo trenta kg meno di ora non ero più felice, anzi. Non mi sentivo più a mio agio con i vestiti corti o con il costume, non ero più sicura di me, non mi vedevo comunque bella. E allora, a che pro? A che pro distruggersi in palestra, privarsi degli sfizi, contare le calorie, se comunque non sarò mai soddisfatta, non sarò mai paga? Questa settimana ho anche smesso di usare ShapeUp, ero stufa di contare le calorie, di vedere sempre il cerchio arancione (per le profane dell'applicazione significa che hai ingerito meno calorie del previsto) senza vedere i numeri sulla bilancia scendere. Volevo persino cancellarla, ma poi non ne ho avuto il coraggio. A che pro, comunque, passare la vita a voler dimagrire e nel frattempo dimenticarsi di vivere?
Eppure, questa mattina mi sono pesata. Il momento di "non me ne frega niente di essere grassa, voglio divertirmi ed essere come tutti gli altri" se n'è andato lasciandomi quasi due kg in più e lo stomaco allenato a ricevere molto più cibo del solito che so che mi farà penare nei prossimi giorni per tornare ai ritmi abituali. 
Non so se sentirmi più patetica per la settimana fuori controllo o per il fatto di essere stata così poco costante, così inconcludente, anche nel mio proposito di fregarmene delle mie fisse e godermi la vita. Ma perché non posso trovare quel maledetto equilibrio tra l'ossessione per le calorie, la palestra tutti i giorni, le ore di cyclette e lo strafogarmi allegramente? 
Mi siete mancate, ora passo dai vostri blog!