giovedì 24 settembre 2015

la laurea ti fa bella e forse anche saggia

"Solo raramente riusciamo a soddisfare noi stessi; è quindi tanto più consolante avere soddisfatto gli altri."

Così scriveva Goethe ed è così che mi sento oggi. 
Ieri mi sono laureata, è stata una giornata densa, stancante e impegnativa, ma ho sentito più vivo che mai l'affetto delle persone che mi circondavano, che avevano trovato il tempo di essere lì, per me, per farmi coraggio, per applaudire, per festeggiare.
Erano tutti così felici, così orgogliosi, così fieri di me che mi sono sentita quasi in colpa di non riuscire a vedere in me quello che vedono loro. I miei genitori, il mio fidanzato che era più agitato di me, il mio migliore amico che aveva gli occhi lucidi. E io in mezzo al loro entusiasmo mi sono abbandonata ai loro abbracci, mi sono lasciata soffocare e contagiare dalla loro gioia. 
Anche sotto il diluvio universale, il vento gelido, la luce invernale che alle sei sembrava notte fonda, ho sentito fortissimo il calore di tutti loro, ho cercato di farmi convincere dai loro "bravissima", ho pensato di dovermi meritare, in qualche modo, tutti i complimenti.
L. mi ha detto un sacco di volte che ero bellissima, e lei non è il tipo da smancerie gratuite, è una persona molto introversa e poco incline al complimenti, quindi doveva pensarlo davvero. 
Mi ci sono sentita anche io, a tratti. Bella, come tutti continuavano a ripetermi, nonostante non fossi magra come avrei voluto. È quella bellezza raggiante dei momenti speciali, quando hai il sorriso ad illuminarti il volto e lo sai, lo senti.
Avevo un miscuglio di sentimenti dentro - gratitudine per tutte le persone che sono state con me, sollievo perché è andato tutto bene, contentezza per il bel voto, per quanto prevedibile, un pizzico di senso di colpa per aver passato il tempo dell'attesa a lamentarmi della pioggia e del freddo - che ieri sera non sono riuscita a prendere sonno prima delle tre e mezza.
Pensavo a quelle persone così orgogliose di me, e a come vorrei poterlo essere anche io, avere la stessa fiducia che loro ripongono in me e nelle mie capacità, la stessa sicurezza nei miei successi futuri.
E ho deciso che il più bel regalo che possa farmi, per quest'ultima (forse) fatica da studentessa, è cercare di avere più spesso il sorriso di ieri e di ricordarmi quanto mi sia sentita fortunata, uscendo dall'aula,  incontrando gli sguardi delle persone più importanti e sapendo che erano tutti lì per me, e che ci saranno sempre. Per una che ha l'angoscia della solitudine, del vuoto e del tempo che passa, non c'è niente di più bello dell'abbraccio di un amico che ha il sapore di una promessa, di un "per sempre".
Spero di non vacillare troppo presto, e che questo momento di pace possa durare per un po'.
 

lunedì 14 settembre 2015

"Mangia, tu che puoi!" - di divieti autoimposti e serate-rivelazione



Giovedì ho dato quell’esame sovrannumerario, quello che non volevo dare, che ho preparato in extremis in dieci giorni, che mi aspettavo andasse male e mi ero decisa ad accettare dal venticinque in su. Non voglio girarci troppo intorno, è finita che ho preso trenta e lode e tutti a dirmi che non avevano dubbi. Come al solito l’unica ad avere dubbi ero io, io che non so studiare per prendere venticinque, che se faccio una cosa deve essere perfetta, o niente. Non accetto la mediocrità, non mi concedo vie di mezzo: o tutto o nulla, tertium non datur.
Venerdì volevo recuperare le ore di sonno perse negli ultimi giorni di studio intensivo, ho tolto la sveglia, mi sono messa la mascherina, sono andata a letto alle tre per essere sicura di addormentarmi “in fretta” e ho pregustato la gioia di svegliarmi a mezzogiorno e fare colazione e pranzo insieme. Peccato che alle dieci mio padre, allarmato, abbia iniziato a chiamarmi dalle scale e poi, ancora più allarmato, sia piombato in camera mia chiedendomi se stessi male. Sapendo che di solito dormo fino a tardi soltanto quando il mio fidanzato dorme con me, deve aver temuto che fossi morta nel sonno.
Sabato e domenica sono andata in montagna con gli amici del mio fidanzato, non la mia compagnia preferita, come forse vi ho già raccontato, ma che questa volta, complice la presenza di un ultimo arrivato più ultimo arrivato di me - il nuovo fidanzato di S., quella che elimina i dolci e perde cinque chili in una settimana, ve ne ho sicuramente parlato – sono stati più piacevoli del solito.
Il programma, dato che il tempo faceva abbastanza schifo, era mangiare, dormire e giocare a carte. Queste ultime due cose meno di quanto avrei voluto, ma il punto “mangiare” è stato rispettato diligentemente. Abbiamo mangiato tantissimo sabato a cena e altrettanto domenica a pranzo, e il tutto lontano da ciclette, step o qualsiasi altro palliativo, eccetto una blanda passeggiata per il centro del paesello, a guardare le vetrine dei negozi di attrezzature per la neve e lo sci.
Sabato sera siamo andati a mangiare piatti tipici: bresaola, sciatt, formaggi a volontà, pizzoccheri. Dato che ero preparata al peggio – e, si sa, gli sgarri previsti da tempo e anticipati da giorni di restrizione sono ammessi – mi sono concessa pure una seconda mestolata di pizzoccheri, anche perché molti al tavolo erano già alla terza e quindi non avrei comunque fatto la figura dell’ingorda. Un amico di A. ha approvato la mia decisione suggellandola con un “mangia, tu che puoi”.
Quel “tu che puoi” ha avuto l’effetto di uno schiaffo in pieno viso, quello che ti arriva quando non te l’aspetti e sembra che faccia più male. Io posso mangiare. Nonostante siano anni che mi ripeto il contrario, io posso mangiare. Cioè, se mangio due forchettate in più di pizzoccheri non succede niente: la terra continua a girare intorno al suo asse, la gente al tavolo continua a parlare del colore dei mobili della cucina di D., il cameriere continua a offrire il bis agli altri e io non acquisto di botto dieci chili, il mio sedere non esplode nei pantaloni color senape che ho appena comprato da Zara e la sedia sulla quale sono seduta non scricchiolerà per colpa del mio peso eccessivo. Forse avrò la pancia più gonfia di quando sono entrata nel ristorante, ma nessuno ci farà caso, a nessuno fregherà nulla, solo io continuerò a pensarci per il resto della serata, forse della settimana.
Ma, di fatto, io posso mangiare. Non è come per R., che è diabetica e deve stare attenta al sale in eccesso, agli zuccheri, ai grassi. Mi ripeto che non devo, ma in realtà sono soltanto io a impedirmelo. Bella scoperta, direte voi. Non che fino all’altroieri pensassi che un meteorite avrebbe disintegrato la terra se avessi fatto il bis di qualcosa, ovvio. È solo che non avevo mai riflettuto a sufficienza su una cosa tanto banale: io posso mangiare. Ne ho lo stesso diritto degli altri, di quelli più magri di me che possono permettersi quello sgarro che io non mi voglio concedere e di quelli più grassi, che è giusto che facciano il bis, perché sono già grassi, e chissenefrega di una forchettata in più di pizzoccheri.
Io non devo mangiare meno degli altri, ho diritto ad abbuffarmi di pizzoccheri e uscire dal ristorante maledicendo l’ingordigia, ho il diritto di farmi riempire il piatto e dire, sorridendo, come l’amico di A. “non è per fame, è per gola”. Ho il diritto di mangiare “per gola”, senza sentire subito il bisogno di vomitare.
Ovviamente, come sempre al ristorante, finita la cena sono andata in bagno. Mi sono guardata allo specchio, mi sono vista enorme, ho sentito le dita della mano insinuarsi meccanicamente in bocca, cercare il punto della gola in cui so di provocarmi il vomito, ma mi sono fermata in tempo, come sempre. Questa volta però ho pensato anche che non basta piegarmi sul gabinetto, infilarmi due dita in gola e fermarmi poco prima di sentire il sapore acido dei succhi gastrici lungo l’esofago per essere soddisfatta dei miei progressi, il progresso vero è realizzare che non sono tenuta a vomitare dopo aver mangiato più del “necessario”. Come non devono farlo gli altri – e sono ben sicura che nessuno debba vomitare dopo aver mangiato troppo – non devo farlo neppure io.
So che a molte sembrerà una banalità, ma per me quella frase, detta per gentilezza, perché quel ragazzo – il solo, forse, degli amici di A. – mi trova simpatica, perché la maglietta nera attillata mi faceva la pancia piatta (prima della cena, è ovvio), è stata una rivelazione.
Noi possiamo mangiare, ragazze. Anche se ci ripetiamo che non dobbiamo farlo, che se mettiamo in bocca quel pezzetto di pane niente sarà più come prima, che la nostra pancia deve restare vuota, noi possiamo mangiare, ne abbiamo ogni diritto.
Un abbraccio!

domenica 6 settembre 2015

settembre è il mese del ripensamento sugli anni e sull'età

Scusate se sono un po' assente, cerco sempre di seguirvi ma ho paura di commentarvi e di aggiornare il blog perché temo di influenzarvi negativamente, dato che da qualche settimana a questa parte sto avendo (di nuovo) un pessimo rapporto col cibo. Me ne rendo conto, mi dispiace e mi sento in colpa, ma non ho la forza, la voglia, o la determinazione necessarie per invertire la rotta. 
Il cibo è la mia valvola di sfogo, l'unica cosa che riesca a controllare, mentre la mia vita corre troppo perché io possa starle dietro. 
Non è una giustificazione, è solo un'analisi della situazione: conosco solo un modo per assecondare il mio bisogno di ordine, di certezze, di stabilità ed è restringere. 
Non siate in pensiero, però, perché tanto il mio fisico ormai è abituato e quindi gli basta un pasto normale alla settimana per rifocillarsi e riprendere un chilo e mezzo, magari due, in via precauzionale.
L'ultima settimana di agosto è stata la peggiore, da questo punto di vista. Ho finito di scrivere la tesi, ho messo a punto la presentazione di un progetto di ricerca per partecipare ad un bando per un dottorato, ho iniziato a preparare un esame sovrannumerario per darlo, in extremis, la prossima settimana. E ho mangiato pochissimo, anche perché dovevo andare ad un matrimonio e mi sembrava che il vestito che avevo scelto mi scoppiasse addosso. Sono riuscita a ritornare a 59, ma non è bastato perché al matrimonio ho mangiato pochissimo. La parte più temibile, il buffet, l'ho superato riempiendo il piatto solo una volta con la scusa, raccontata a me stessa più che agli altri, che poi avrei avuto tutta una cena per strafogarmi, e durante la cena vera e propria ho finito solo una portata, mentre le altre le ho generosamente offerte ai miei commensali oppure minuziosamente sparse nel piatto così che sembrasse che avessi mangiato di più. Sì, mi sono piegata ai mezzucci di quando ero un'adolescente difficile, è patetico, lo so bene.
Però non avevo fame e non avevo voglia di alzarmi da tavola e vedere la stoffa del mio vestito tirare sulla pancia, così ho mangiato poco, solo quello che davvero mi piaceva e solo nelle dosi che mi permettevano di non sentirmi in colpa.
Questa settimana ho mangiato di più, anche perché sono stata a casa con i miei e non potevo liquidare i pasti con un pacchetto di crackers integrali. È bastato, comunque, per risuperare i 60 e forse domani rivedrò anche il 61.
So che quello che ho fatto, che faccio, è sbagliato, eppure per ora mi osservo sbagliare e archivio la faccenda nel fascicolo "dopo la laurea", al quale sto rimandando un sacco di cose di questi tempi: il riposo, lo shopping, le "coccole" a me stessa.
Per adesso non ho tempo. C'è quell'esame che non volevo dare ma che, ora che ho deciso di tentare, sto preparando comunque al meglio - e dire che ero partita dicendo che avrei solo sfogliato il materiale, l'avrei tentato e nel caso rifiutato a cuor leggero, mentre ora mi sono decisa che accetterò soltanto da 25 in su e quindi ho dovuto adeguare lo studio al target - c'è il colloquio per il dottorato, se mi ci ammettono, c'è la discussione della tesi.
C'è il futuro, poi. Il buio, la nebbia, l'incertezza. Ho paura di non sapere cosa fare, di scoprire che quello che pensavo mi piacesse in realtà non mi soddisfa più e ho paura dell'ignoto. Io sono una da certezze ferree, nella vita. Per la prima volta non so cosa ne sarà di me di qui a un mese e allora ho dovuto provvedere a crearmi un obiettivo tangibile per quest'ottobre nebuloso: essere magra.
Il che, per altro, mi dà anche l'occasione di riempire le mie giornate con una delle attività che mi riesce meglio e che mi fa sentire che è tutto sotto controllo: restringere. Non importa se non so se fare un master o inviare la mia candidatura per altri dottorati o sistemare il mio curriculum e cercare direttamente lavoro, l'importante è che, qualsiasi cosa io faccia, la faccia in una taglia 38, 40 al massimo. 
Una magra consolazione, davvero.
Potrei godermi serenamente questo blando inizio d'autunno, e invece mi riempio di cose da fare, non perdo occasione di punirmi, sono sempre più severa con me stessa.
Questo weekend mi sono presa una pausa e sia ieri che oggi sono andata a vedere la Formula1. Credo di avervi già accennato qualcosa riguardo la mia passione per le macchine, che sorprende sempre tutti quelli che mi conoscono - perfettina bambolina con i pantaloni a vita alta e le scarpe col tacco - e che è forse la più antica delle mie passioni. Non chiedetemi perché, c'è qualcosa che mi strega nelle macchine da corsa. Negli anni si è arricchita di quell'ossessione per l'effimero che mi tormenta - cosa, più di un masso di lamiera scagliata a 300km/h lungo una pista, ricorda quanto è transeunte e pericolante la nostra esistenza? - ma andare a vedere la Formula1 mi piaceva già da ragazzina, e dire che mio padre, prima che lo contagiassi io, non la guardava neppure in televisione. Oggi ero lì, a pochi metri dalla pista, e non pensavo al futuro, e stando in piedi a dimenare le braccia verso l'alto, con gli altri tifosi, non ho avuto la tentazione di nascondere il tremolio dei miei avambracci e quando hanno aperto i cancelli e tutti hanno invaso la pista ho corso per arrivare sotto al podio senza curarmi del fatto che mi ballassero le tette e che mi si sarebbe sbavato il trucco. Correvo per essere parte di una festa nella quale non era importante essere laureati o magri, bastava quella superficiale fede comune, l'affetto per una macchina è un pilota, ad unire tanti perfetti sconosciuti. 
E quando sono arrivata e ho fatto in tempo a vedere la premiazione, a scattare le foto, a farmi ricoprire di coriandoli tricolori, ho sentito che la mia fatica era stata ripagata, una sensazione che, purtroppo, non provo mai, anche se ho sempre l'impressione di correre, a perdifiato, verso una meta oscura.
E so che finché non capirò cosa sto cercando la mia corsa sarà frustrante e vana, ma per adesso mi devo accontentare di quelle piccole corse minori e delle loro mete che, per quanto frivole, mi regalano qualche attimo di sollievo.