Avete
presente quella brutta sensazione che vi assale quando vi rendete conto di aver parcheggiato
la macchina nel mezzo di un pantano e realizzate che non
riuscirete a tirarla fuori neanche premendo a fondo l'acceleratore? Che,
anzi, così facendo non farete che spingerla nel fango?
Ecco,
io in questi giorni mi sento così. Sono qui, bloccata, e aspetto che un carrattrezzi mi
trascini fuori dalla palta, che un deus ex machina mi sollevi, mi
deponga su un terreno più stabile e mi dica in quale direzione devo andare
per non incappare più nella stessa palude.
Forse
dovrei solo accettare che non ci sarà nessun deus ex machina e
rassegnarmi a cavarmela da sola, nessun intervento del caso, questa volta. Ho già
lasciato troppo spesso che a decidere per me fossero dei "segni", o
meglio casualità cui riconoscevo un ruolo speciale, ora invece non è più tempo di interpretare segnali in codice, è tempo di agire con le mie forze soltanto.
Venerdì,
forse, è il mio ultimo giorno di supplenza. Venerdì, forse, vado al
colloquio d'ammissione per il master. Venerdì potrebbe essere lo
spartiacque della mia vita, o forse no. Dipende solo da me, e dalla mia
capacità o meno di tirarmi fuori da questa palude.
In
questo momento invidio quella gente che ha un obbiettivo da sempre,
magari difficile da raggiungere, ma chiaro, preciso, sicuro. Come M. che
sapeva da tempo di voler fare il dottorato, si è iscritto a venti bandi
e infine è passato. Come H. che voleva insegnare ed è felice, supplente
precaria come me, ma felice. Come V. che ha sempre detto di voler fare
l'avvocato e alla fine del liceo si è iscritta a giurisprudenza. Come il
mio fidanzato che sognava di lavorare in ospedale dalle scuole
elementari e non si è mai fatto sedurre da nessun'altra strada, non ha
mai valutato le alternative.
Io,
invece, non faccio che vagliare e rivagliare le mie, di alternative. E mi piacciono
tutte, il che secondo l'acuta analisi della sorella del mio fidanzato
significa che in realtà non me ne piace nessuna. Ho mandato il CV
all'Esselunga perché mia mamma aveva letto un avviso e mi hanno chiamata
per un colloquio. Non ho neanche capito per quale posizione concorro
("cerchiamo una figura professionale in grado di gestire le relazioni
con il pubblico e in possesso di un diploma di laurea o superiore per
incarichi direzionali", secondo voi che significa?) ma sono curiosa, e
non ho niente da perdere.
Forse.
Perché in realtà da qualche giorno a questa parte una collega che fin
dal primo giorno mi ha presa sotto la sua ala protettrice ("potresti
essere mia figlia, una delle mie figlie ha due anni più di te") mi fa un
sacco di domande sul mio futuro, mi consiglia di non perdere tempo in
lavori che non mi interessano solo perché ho voglia di fare qualcosa e
di mettere da parte del denaro, mi invita a rincorrere con
determinazione solo quello che davvero mi interessa. Poi mi spiazza,
dicendomi che essere sopravvissuta per (quasi) tre settimane in una
delle classi in cui sto insegnando è la prova che ho la stoffa del
professore, che so meritarmi il rispetto e la stima dei ragazzi e che
potrei ricavarne molte soddisfazioni, magari insegnando le cose a me più
care, magari a ragazzi più grandi.
E
io non so cosa dirle, non so cosa dire ai miei, che sono contenti e
orgogliosi di tutte queste opportunità che mi si parano davanti ma che
mi ripetono di pensare a cosa voglio davvero, che loro mi sosterranno
qualsiasi cosa io decida di fare, a patto che sia felice; non so cosa
dire al mio fidanzato, che non ha mai provato questo brivido del vuoto,
quest'angoscia di poter fare tutto e nulla e di non sapere scegliere,
perché lui a un anno dalla laurea fa quello che ha sempre sognato di
fare.
E intanto brancolo nella palude.
Incontro
la preside nell'atrio, mi chiede se sarei felice di continuare, nel
caso in cui la persona che sostituisco dovesse chiedere altre settimane
di permesso, e io non lo so. Ci credete? Non so se se sarei felice di
continuare o no! È possibile?
Coi
ragazzi va meglio, anche con gli scapestrati di seconda. Ci stiamo
venendo incontro, loro mi trovano strana rispetto ai professori cui sono
abituati, io spesso non li capisco, ma stiamo trovando un equilibrio.
Quelli di prima invece sono uno spettacolo, continuano a dirmi che
vogliono che non me ne vada mai, che le ore con me volano, anche quelle
di grammatica, e che devo rimanere con loro per sempre.
Mi
è toccato persino fare sorveglianza durante la mensa e mangiare due
morsi di pizza, rifiutare il pane (che poi, perché dovrebbero dare ai
ragazzini del pane insieme alla pizza?!), cedere il mio budino al
cioccolato, tutto in mezzo ai ragazzi urlanti e ai loro "prof, ma mangia
solo quello?" da sviare accuratamente, ché mica voglio essere un
cattivo esempio. Per le ragazze, soprattutto, che sono in un'età
difficile e non voglio che pensino che non mangio perché ho paura dei
carboidrati. Cosa mi tocca fare! Mangiare la pizza per essere un esempio
virtuoso, col rischio pure di stare male.
La
palude riguarda anche il peso. Mi sto sforzando di mangiare bene:
faccio colazione, resisto alla tentazione di saltare il pranzo, cerco di
non esagerare a cena, limito il consumo di caffè. Eppure il peso non
scende, è impantanato pure lui, e devo raccogliere tutta la buona
volontà e la razionalità di cui dispongo per non cadere vittima dei
soliti trucchetti. Vorrei restringere, per vedere quei due chili odiosi
andarsene, ma continuo a mangiare in maniera equilibrata ripetendomi che
ad un certo punto la situazione si sbloccherà, magari quando mi
rimboccherò le maniche e mi tirerò fuori dalla palude, chissà. Forse è
una risposta del mio corpo alla paralisi di cui sono vittima, un modo
per somatizzare il blocco.
Vorrei
svegliarmi domani e sapere esattamente cosa voglio fare "da grande",
chi voglio diventare. Io sono sempre stata l'indecisa cronica che va in
panico davanti al menù, quella che ritarda sempre le ordinazioni perché
cambia idea mille volte. Come posso scegliere cosa fare nella vita,
quando non so decidere neppure cosa voglio per cena?