mercoledì 28 ottobre 2015

la palude

Avete presente quella brutta sensazione che vi assale quando vi rendete conto di aver parcheggiato la macchina nel mezzo di un pantano e realizzate che non riuscirete a tirarla fuori neanche premendo a fondo l'acceleratore? Che, anzi, così facendo non farete che spingerla nel fango?
Ecco, io in questi giorni mi sento così. Sono qui, bloccata, e aspetto che un carrattrezzi mi trascini fuori dalla palta, che un deus ex machina mi sollevi, mi deponga su un terreno più stabile e mi dica in quale direzione devo andare per non incappare più nella stessa palude.
Forse dovrei solo accettare che non ci sarà nessun deus ex machina e rassegnarmi a cavarmela da sola, nessun intervento del caso, questa volta. Ho già lasciato troppo spesso che a decidere per me fossero dei "segni", o meglio casualità cui riconoscevo un ruolo speciale, ora invece non è più tempo di interpretare segnali in codice, è tempo di agire con le mie forze soltanto.
Venerdì, forse, è il mio ultimo giorno di supplenza. Venerdì, forse, vado al colloquio d'ammissione per il master. Venerdì potrebbe essere lo spartiacque della mia vita, o forse no. Dipende solo da me, e dalla mia capacità o meno di tirarmi fuori da questa palude.
In questo momento invidio quella gente che ha un obbiettivo da sempre, magari difficile da raggiungere, ma chiaro, preciso, sicuro. Come M. che sapeva da tempo di voler fare il dottorato, si è iscritto a venti bandi e infine è passato. Come H. che voleva insegnare ed è felice, supplente precaria come me, ma felice. Come V. che ha sempre detto di voler fare l'avvocato e alla fine del liceo si è iscritta a giurisprudenza. Come il mio fidanzato che sognava di lavorare in ospedale dalle scuole elementari e non si è mai fatto sedurre da nessun'altra strada, non ha mai valutato le alternative.
Io, invece, non faccio che vagliare e rivagliare le mie, di alternative. E mi piacciono tutte, il che secondo l'acuta analisi della sorella del mio fidanzato significa che in realtà non me ne piace nessuna. Ho mandato il CV all'Esselunga perché mia mamma aveva letto un avviso e mi hanno chiamata per un colloquio. Non ho neanche capito per quale posizione concorro ("cerchiamo una figura professionale in grado di gestire le relazioni con il pubblico e in possesso di un diploma di laurea o superiore per incarichi direzionali", secondo voi che significa?) ma sono curiosa, e non ho niente da perdere.
Forse. Perché in realtà da qualche giorno a questa parte una collega che fin dal primo giorno mi ha presa sotto la sua ala protettrice ("potresti essere mia figlia, una delle mie figlie ha due anni più di te") mi fa un sacco di domande sul mio futuro, mi consiglia di non perdere tempo in lavori che non mi interessano solo perché ho voglia di fare qualcosa e di mettere da parte del denaro, mi invita a rincorrere con determinazione solo quello che davvero mi interessa. Poi mi spiazza, dicendomi che essere sopravvissuta per (quasi) tre settimane in una delle classi in cui sto insegnando è la prova che ho la stoffa del professore, che so meritarmi il rispetto e la stima dei ragazzi e che potrei ricavarne molte soddisfazioni, magari insegnando le cose a me più care, magari a ragazzi più grandi.
E io non so cosa dirle, non so cosa dire ai miei, che sono contenti e orgogliosi di tutte queste opportunità che mi si parano davanti ma che mi ripetono di pensare a cosa voglio davvero, che loro mi sosterranno qualsiasi cosa io decida di fare, a patto che sia felice; non so cosa dire al mio fidanzato, che non ha mai provato questo brivido del vuoto, quest'angoscia di poter fare tutto e nulla e di non sapere scegliere, perché lui a un anno dalla laurea fa quello che ha sempre sognato di fare.
E intanto brancolo nella palude.
Incontro la preside nell'atrio, mi chiede se sarei felice di continuare, nel caso in cui la persona che sostituisco dovesse chiedere altre settimane di permesso, e io non lo so. Ci credete? Non so se se sarei felice di continuare o no! È possibile?
Coi ragazzi va meglio, anche con gli scapestrati di seconda. Ci stiamo venendo incontro, loro mi trovano strana rispetto ai professori cui sono abituati, io spesso non li capisco, ma stiamo trovando un equilibrio. Quelli di prima invece sono uno spettacolo, continuano a dirmi che vogliono che non me ne vada mai, che le ore con me volano, anche quelle di grammatica, e che devo rimanere con loro per sempre.
Mi è toccato persino fare sorveglianza durante la mensa e mangiare due morsi di pizza, rifiutare il pane (che poi, perché dovrebbero dare ai ragazzini del pane insieme alla pizza?!), cedere il mio budino al cioccolato, tutto in mezzo ai ragazzi urlanti e ai loro "prof, ma mangia solo quello?" da sviare accuratamente, ché mica voglio essere un cattivo esempio. Per le ragazze, soprattutto, che sono in un'età difficile e non voglio che pensino che non mangio perché ho paura dei carboidrati. Cosa mi tocca fare! Mangiare la pizza per essere un esempio virtuoso, col rischio pure di stare male.
La palude riguarda anche il peso. Mi sto sforzando di mangiare bene: faccio colazione, resisto alla tentazione di saltare il pranzo, cerco di non esagerare a cena, limito il consumo di caffè. Eppure il peso non scende, è impantanato pure lui, e devo raccogliere tutta la buona volontà e la razionalità di cui dispongo per non cadere vittima dei soliti trucchetti. Vorrei restringere, per vedere quei due chili odiosi andarsene, ma continuo a mangiare in maniera equilibrata ripetendomi che ad un certo punto la situazione si sbloccherà, magari quando mi rimboccherò le maniche e mi tirerò fuori dalla palude, chissà. Forse è una risposta del mio corpo alla paralisi di cui sono vittima, un modo per somatizzare il blocco.
Vorrei svegliarmi domani e sapere esattamente cosa voglio fare "da grande", chi voglio diventare. Io sono sempre stata l'indecisa cronica che va in panico davanti al menù, quella che ritarda sempre le ordinazioni perché cambia idea mille volte. Come posso scegliere cosa fare nella vita, quando non so decidere neppure cosa voglio per cena?

giovedì 22 ottobre 2015

lavorare fa ingrassare!

Settimana scorsa ho cominciato a lavorare. Una supplenza di tre settimane in una scuola media, niente di stabile e duraturo, certo, ma se mi avessero detto che a un mese scarso dalla laurea mi sarei trovata tra le mani un contratto (per quanto effimero) non ci avrei mai creduto.
Perciò, ben venga. Ben vengano le esperienze, ben venga tutto ciò che mi impedisce di starmene a casa da sola a meditare sul passato e sul futuro, sulla mia vita inconcludente, sugli errori reiterati.
Non mi sta piacendo molto, ve lo confesso. I ragazzini di quell'età sono difficili e io non sono abbastanza paziente, abbastanza empatica e abbastanza sensibile per stargli dietro. Forse sono una brutta persona, forse semplicemente non sono fatta per questo mondo di professoresse che fanno da mamme e da psicologhe, di genitori che vengono a sindacare sui (meritati) 4 dei loro figli e di ragazzini che si presentano come vivaci ed esuberanti ma che fondamentalmente sono dei maleducati.
Sarò anaffettiva, ma non nutro alcun interesse per il "rapporto speciale che si instaura con i ragazzi" di cui parlano le mie colleghe, che ammiro per la loro dedizione ma che non invidio affatto. Preferirei fare un'arida lezione di greco a dei ginnasiali che mi odiano piuttosto che avere un rapporto speciale con quel mucchio di scalmanati che mi tocca domare ogni giorno.
Ve lo dico senza peli sulla lingua: per uno stipendio di 1400/1500€ al mese non ne vale la pena. Sgolarsi per convincere i due cretini all'ultimo banco a tacere, fronteggiare genitori arroganti che si permettono di contestare le tue correzioni alla verifica di grammatica, confrontarsi con colleghe che ti trattano come se fossi una cretina solo perché sei giovane e sei l'ultima arrivata, tutto in cambio di qualche misera soddisfazione.
Magari sono solo stata sfortunata io, se fossi capitata in una classe diversa - come la deliziosa prima in cui purtroppo ho solo sei ore - vedrei tutto sotto un'altra luce, magari è solo questione di abitudine e si impara a farsi scivolare tutto addosso, si rivedono le proprie aspettative, ci si abitua ad accontentarsi di conquiste piccole piccole, ma a metà di questa "avventura" posso dire che non vorrei farlo per tutta la vita.
Sono contenta di aver trovato un lavoro così in fretta, mi fa sentire utile e responsabile, ma non credo sia la mia strada. Vorrei provare ad insegnare in un liceo, per valutare se in un contesto diverso l'insegnamento possa piacermi di più, e intanto non escludo che prima della fine di settimana prossima possa cambiare idea, del resto fino a qualche mese fa escludevo categoricamente la possibilità di ritrovarmi in una scuola, e invece eccomi qui, prof.
Un altro aspetto che fatico a digerire, e la metafora è particolarmente indicata, è che in questo primo breve periodo da lavoratrice ho messo su un altro chilo, invece di perdere i due che avevo in programma di perdere. Negli ultimi giorni sono sul 61 alto e non so come invertire questa orribile tendenza. Non sto mangiando molto, in realtà, ma mangio male, ad orari sempre diversi, cose acquistate in giro mentre torno a casa, mangiate frettolosamente, in piedi, perché odio mangiare da sola, tanto meno in pubblico.
Non riesco a fare colazione perché esco di casa troppo presto, quindi generalmente bevo un caffè prima di iniziare e poi a metà mattina mi tocca buttare giù degli zuccheri per sopravvivere e l'unica opzione sono le merendine confezionate (essendo intollerante al lievito posso mangiare solo dolci preparati con lieviti chimici o agenti lievitanti) piene di grassi che mi lasciano l'unto sulle mani e il disgusto nella testa. 
L'altroieri momento di crisi perché dovevo fermarmi nel pomeriggio e non avevo nessuno con cui pranzare, e troppo poco tempo per tornare a casa. Ho vagato per un'ora per negozi, cercando di decidere se fosse meglio andare in un bar/ristorante  e mangiare un piatto "vero" (un'insalatona, della bresaola, un secondo caldo) da sola oppure prendere qualcosa in giro e mangiarlo per strada confondendomi nella folla. Alla fine ho optato per la seconda possibilità, perché l'idea di essere ad un tavolo da sola mi angosciava troppo, e mi sono ritrovata a comprare delle patatine in un locale che vende solo patate fritte, l'unica valida alternativa alla sfilza di forni, focaccerie, piadinerie. Avrei dovuto prendere uno yogurt come lunedì o un gelato, ma poi sono passata da quel posto e ho pensato che fosse il pasto adatto da consumare in mezzo ad una piazza piena di gente che spiluccava ad un identico cono: nessuno avrebbe guardato me.
Peccato che le patatine non fossero poi così speciali, erano salate e troppo fritte e così ne ho mangiate solo la metà e ho ceduto il resto a un uomo che rovistava nel cassonetto. Nel momento in cui gli ho lasciato il sacchetto tra le mani mi sono sentita sollevata da un peso enorme, quasi mi stessi liberando della refurtiva di una rapina! E più o meno era così: stavo distruggendo le prove della mia colpa, sperando di cancellarne anche le conseguenze dal mio corpo, ma mi sono sentita sporca e contaminata per tutto il giorno.
Per oggi però mi sono organizzata con cura: dato che non avrei avuto il tempo di tornare a casa per pranzo perché avevo un impegno nel primo pomeriggio ho preparato del farro con pomodorini secchi e olive verdi e una mini brioche integrale (pesa 40 grammi, l'ho pesata dopo cena, cedendo ad un impulso più forte di me) da mangiare a colazione, così non sarò costretta a comprare cose grasse.
Devo assolutamente perdere questi chili odiosi, perché mi sento ingombrante e qualsiasi cosa indossi non riesco a sentirmi a mio agio, mi sembra di scoppiare nei pantaloni aderenti, è una sensazione terribile che non voglio provare mai più.
Devo trovare un ritmo sano per questi ultimi dieci giorni di lavoro, anche come esempio per un futuro più o meno prossimo nel quale non potrò permettermi di ingrassare di un chilo per ogni settimana lavorativa.
Vi abbraccio e vi ringrazio per i bellissimi commenti allo scorso post! Risponderò presto, quando avrò il tempo e la concentrazione che essi meritano!

giovedì 15 ottobre 2015

anniversario amaro

Domani ricorre il mio settimo anniversario con i DCA. C'è poco da festeggiare, me ne rendo conto, eppure ogni anno, quando si avvicina il 16 ottobre, riesco sempre a sorprendermi di quanto questa particolare relazione, pur con i suoi alti e bassi, sia incredibilmente duratura.
Correva l'anno 2008 quando tutto è cominciato. E tutto è cominciato nell'elegante bagno del castello in cui si celebrava il matrimonio di mia cugina. Lì, mentre mi ritoccavo il trucco nello specchio anticato (avete presente quelli un po' macchiati, con le pesanti cornici di legno dorato?) qualcosa è scattato in me: mi sono vista, improvvisamente, orribile, grottesca. Ho visto il grasso che debordava dal vestito con lo scollo a cuore, creando disgustosi cuscinetti sotto le ascelle, mi sono vista le gambe enormi, troppo pesanti per le scarpette dal tacco fine, le guance deformi, il sedere obeso anche sotto la gonna a palloncino. 
Mi sono sentita sporca, ho avuto l'impressione che tutto il cibo che avevo ingurgitato fino ad allora mi stesse marcendo nello stomaco, ho sentito di dovermi disfare al più presto di tutto quello schifo, così mi sono infilata in uno dei bagni e ho vomitato tre volte di fila, finché non sono stata certa di aver eliminato tutto, di essere finalmente pulita.
Non so cosa sia successo in quel bagno. Non che fino ad allora fossi una ragazzina spensierata e felice, avevo già sofferto di disturbi d'ansia generalizzata negli anni precedenti, episodi di derealizzazione e depersonalizzazione che duravano anche per giorni interi, ma non avevo mai avuto pensieri distruttivi sul mio corpo. Tra l'altro pochi mesi prima la mia amica M. era stata ricoverata in una clinica specializzata in DCA, l'avevo vista mentre la portavano via da scuola in braccio, ridotta ad uno scheletro di una trentina di chili, non avrei mai pensato che di lì a poco ci sarei cascata anche io, io che le ero stata vicina, io che le avevo tagliato la pizza in pezzi microscopici per convincerla a mangiare, io che le avevo fatto compagnia mentre vomitava, nei bagni del liceo, dopo aver bevuto una cioccolata calda alle macchinette.
Prima fase - la "luna di miele"
  
Da M., anziché imparare cosa non fare, avevo imparato come comportarmi per non essere scoperta. Ho sempre avuto un debole per la pianificazione, e mi ritrovai a pianificare anche la mia malattia. Dapprima fui molto cauta: avevo ridotto drasticamente il mio introito calorico ma, considerato che fino ad allora avevo mangiato sicuramente più del necessario, nessuno s'insospettì. Per Natale avevo perso più di dieci chili ricevendo solo complimenti.
Ero orgogliosa di quello che ero riuscita a fare: mi piacevo, mi sentivo bella, ero a mio agio con il mio corpo. A Capodanno indossavo un vestito cortissimo, verde scuro ricoperto di glitter, e portavo i capelli alla Rihanna dei tempi, corti corti, con un ciuffo davanti agli occhi.  Avevo l'impressione di avere tutto sotto controllo, di avere il pieno potere sul mio corpo e sulla mia vita, poi all'improvviso le cose cominciarono a sfuggirmi di mano.

Seconda fase - l'ossessione

Per continuare a dimagrire a quella velocità (perdevo 1, 2 kg alla settimana) dovevo continuare a ridurre l'apporto calorico. All'inizio della primavera avevo eliminato la colazione e sostituito il pranzo con una barretta ipocalorica o con uno yogurt magro. A questo punto, poi, dovevo raccontare molte più bugie per camuffare i miei digiuni: dicevo ai miei che mangiavo a scuola e ai miei amici che mangiavo a casa e poi non mangiavo affatto, uscivo di casa prima se dovevamo incontrarci dopo cena, così potevo mentire a tutti, fingevo di portarmi a scuola un panino e poi lo davo ai gatti della custode. Vivevo in una fitta rete di menzogne che riuscì a proteggermi finché non fu il mio corpo stesso a tradirmi: a fine maggio pesavo 43 kg, trenta chili meno di ottobre, e non avevo più le forze per fare nulla, se non studiare e alzare sempre di più la mia media scolastica, che ormai sfiorava il 9. 

Terza fase - la distruzione

Ormai nessuno mi faceva più i complimenti per la mia forma invidiabile e io non mi vedevo più bella come all'inizio della mia "dieta". Mi vedevo grassa, sproporzionata, ingombrante, ed ero soprattutto stanca: dormivo due o tre ore per notte, passando il resto del tempo sveglia per via degli attacchi di panico ripetuti, e arrivai persino a sperare di addormentarmi e non svegliarmi mai più.
Una notte d'inizio giugno, poi, rimasi paralizzata per qualche minuto: non riuscivo più a muovere le mani, né le gambe, né la bocca per chiamare aiuto. Fu bruttissimo, credetti davvero di morire, immaginai i miei genitori che scoprivano il cadavere, mi figurai il mio funerale, i miei amici in lacrime, la lettera di addio che tenevo nel cassetto della scrivania che veniva letta da M. o da A.
In quel momento decisi che dovevo fare qualcosa, che non volevo morire, né essere ricoverata come aveva paventato il mio medico di base. Ricominciai piano piano a mangiare, ripresi subito qualche chilo per poi raggiungere i 47/49 kg sui quali rimasi stabile per tutta l'estate.

Quarta fase - la "guarigione" a.k.a. la bulimia
 
La mia "guarigione" passò attraverso una lunga fase bulimica, come capita a tante ragazze anoressiche. L'anno di digiuni e restrizione mi aveva convinta che non mangiare fosse sbagliato, perciò mangiare e poi vomitare mi sembrava un buon compromesso per stare bene senza tornare grassa. Avevo una paura folle di ritornare sopra i 50kg, di non entrare più nella 38, di non riuscire più a sentirmi le ossa del bacino. Volevo stare bene, ricominciare ad uscire e divertirmi, volevo che i miei amici e i miei genitori non fossero più preoccupati per me, ma non ero pronta a rinunciare al 4 sulla bilancia.
Così mangiavo e vomitavo. Non tutto, ovviamente. Vomitavo quasi sempre la cena, sempre quando uscivo a mangiare, spesso il pranzo, mai la colazione, mai gli spuntini pomeridiani che mi davano l'energia per studiare e per fare ciclette, la mia nuova droga. 
La mia fase bulimica, che per me corrispondeva alla guarigione completa (non ho mai pensato di essere di nuovo malata!), durò per un anno intero, finché il dentista che doveva controllare a che punto fossero i denti del giudizio non mi disse che avevo i denti rovinati dal vomito e che se non avessi smesso avrei dovuto rifarli tutti. Il che mi sarebbe anche piaciuto (denti di ceramica, perfetti e bianchissimi!) se non fosse che poco dopo ci si mise anche il medico a dirmi che il bruciore costante allo stomaco non era dovuto soltanto allo stress della maturità, ma anche ai succhi gastrici e che potevo sviluppare un'ulcera o un tumore allo stomaco e io, da brava ipocondriaca quale sono e fui, decisi di abbandonare quella pratica quotidiana, nella quale ero diventata talmente brava che ormai non mi serviva più neppure bere litri d'acqua o infilarmi le dita in gola.

Quinta fase - l'ipocondria alias "il corpo sempre al centro dei miei pensieri"

Con l'inizio dell'Università arrivò un periodo di serenità, forse il più duraturo di questi sette anni. Avevo accettato di superare il 50, e nel corso del 2010 e poi del 2011 continuai ad ingrassare inesorabilmente, arrivando all'inizio del 2012 a sfiorare nuovamente i 70kg. All'inizio mangiavo perché ero felice, nell'autunno del 2011, invece, mangiavo perché ero sicura di stare per morire, e volevo togliermi qualche sfizio. So che suona assurdo, ma ho avuto tre o quattro mesi di depressione mista ad episodi ipocondriaci piuttosto gravi, ero convinta di avere la SLA o un tumore al cervello e ne ero tanto convinta che mi provocavo dei sintomi inquietanti, come fascicolazioni in tutto il corpo o formicolii continui che convinsero persino il mio medico a farmi fare una serie di esami neurologici, risultati tutti negativi.

Sesta fase - la Dukan 

Nel 2012, superata la fase ipocondriaco-depressiva, decisi che era il momento di riprendere in mano la mia vita e il mio corpo. Le diete "normali" non avevano più alcun effetto su un corpo provato da anni di disturbi alimentari, ingrassavo con 1000/1200kcal al giorno, nonostante le ore di sport. A maggio cominciai la dieta Dukan, accodandomi ad alcune amiche che la stavano già facendo e illusa dai risultati ottimi della madre del mio fidanzato, che aveva perso 20kg in un paio di mesi. Io non fui altrettanto fortunata ma forzando la Dukan in chiave molto restrittiva riuscii a tornare a 55kg entro l'inverno, salvo poi recuperare tutto con gli interessi, una volta ripresa un'alimentazione sana e variegata.

Settima fase - riportare il corpo a regime

E siamo all'apertura di questo blog, all'inizio del 2014. Mi ritrovavo, ex anoressica, intrappolata in un corpo enorme, che non rispondeva più al mio arbitrio, avviato ad un ingrassamento senza fine. 68 kg. 72. 76. Temevo che avrei visto gli 80 prima di riuscire a capire cosa sbagliavo, finché non mi sono rassegnata ad una decisione che non avevo mai voluto prendere: rivolgermi ad un professionista, nello specifico una nutrizionista esperta in bulimia e DCA, che ha elaborato per me un piano alimentare con lo scopo di correggere il mio metabolismo basale, che nel settembre 2014 era di 790kcal al giorno e che alla bioimpedenziometria di luglio si attestava, invece, su valori molto più corretti, 1100kcal circa. È ancora basso, ma considerati i miei problemi di ipotiroidismo è sicuramente più accettabile.
La situazione attuale è che non vedo la nutrizionista da luglio, sono in una fase di nuova sfiducia nei confronti del piano alimentare, perché non dimagrisco più, sono stabile intorno ai 60kg e la dottoressa mi aveva predetto che, riportato il metabolismo basale al suo valore corretto, avrei raggiunto il mio set-point. Ma io così non sto bene, mi sento ancora grassa, vorrei perdere (almeno) altri cinque chili, ma con il regime alimentare da lei prescritto non posso farlo, perché non è abbastanza "severo". Razionalmente so che dovrei accettare di fermarmi, perdere semmai un paio di chili, ritornando al peso di quest'estate, e lavorare poi sulla tonificazione, so che avendo fatto danza per molti anni non potrò mai avere le gambe sottili che invidio alle altre, che la 40/42 è giusta per me, ma tutte queste belle e sagge cose non mi impediscono di pensare che sarebbe bello regalarmi un 55 per Natale, che è il mio peso ideale, che quando pesavo così, quel famoso Capodanno del 2009, mi vedevo bella, bella come non mi sono mai più rivista, né a 40 né a 70kg.
Scusate per il post lunghissimo, anche perché le lettrici di lunga data sicuramente conoscevano già molti dettagli di questa storia, ma ho voluto ripercorrere le tappe fondamentali di questi sette anni per tirare le fila del discorso e per chiedermi se sono pronta, dopo tanti anni, a rompere questo rapporto malato e deleterio e a cominciare un percorso nuovo, ma nuovo per davvero.

sabato 10 ottobre 2015

Obbiettivo del sabato sera? Sembrare più magra delle altre.

Sabato sera. Pedalo sulla ciclette e intanto penso a come vestirmi per uscire a cena. L'occasione non è delle mie preferite: festa di un amico del mio fidanzato con altri suoi amici e con i colleghi del festeggiato. Gli amici del mio fidanzato non mi piacciono e io non piaccio a loro, tant'è che nessuno si è presentato alla mia festa di laurea, e quindi li avrei bidonati volentieri, ma lui crede che sia di cattivo gusto non andare per ripicca (beh, lo è almeno quanto non venire alla mia festa e non impegnarsi neppure ad inventare una scusa) e così ho accettato di andare, a patto di avere una giornata per noi due soli domani, tradendo il tradizionale pranzo della domenica a casa dei suoi.
Perciò, dicevamo, penso a come vestirmi. Lo scopo non è essere carina, curata, elegante, ma sembrare più magra delle altre.
Shame on me.
Ventiquattro anni, fama di essere una persona seria, assennata e responsabile e svuoto ancora l'armadio alla ricerca dell'abbinamento che mi faccia sembrare più magra possibile: meglio una maglia aderente o i pantaloni a vita alta per sottolineare il punto vita sottile? O meglio il nero, per nascondere i punti deboli e camuffare il culone? Tacchi alti per slanciare le gambe?
Non mi interessa neppure di sembrare bella, voglio solo sembrare magra. Più magra di quell'amica di A. che si sfonda di dolci per un anno e poi perde dieci chili in due mesi, più magra delle colleghe di J., più magra di tutte le altre ragazze.
È un desiderio di cui mi vergogno, ve lo giuro, ma mi tormenta da anni. Iniziando a frequentare l'università avevo addirittura valutato la possibilità di fare amicizia solo con le più grasse del corso, in modo da poter essere la più magra tra le mie amiche. Invece sono condannata ad avere amiche magre e gnocche: M. che è stata anoressica, S. che piace a tutti i maschi del mondo, R. che si lamenta delle gambotte e sono la metà delle mie.
Ho la sensazione che mi godrei le cene molto di più se al tavolo fossero sedute solo persone più grasse di me. Non dovrei combattere con i sensi di colpa ogni volta che sollevo la forchetta, non sarei costretta a pensare che ogni boccone in più aumenti il divario tra me e loro, o - la mia ossessione più grande - non dovrei temere di fare la figura della cicciona ingorda.
 
Lo so che sono patetica mentre valuto se sia meglio nascondere la pancia con un giacchino o rimborsando la camicia fuori dai pantaloni, ma il desiderio di essere più magra delle altre aumenta quando mi trovo in situazioni che mi mettono a disagio, tra persone che non conosco e per le quali non sono Euridice ma la fidanzata di A. Vorrei essere ricordata come la fidanzata magra di A. Vorrei essere una di quelle persone magre che non si fanno problemi ad ordinare una pizza, piuttosto che l'aspirante magra fallita che ordina l'insalatona. Vorrei sentirmi dire "come fai a rimanere magra, mangiando così?" mentre da anni la gente non fa che dirmi che mangio troppo poco, che faccio troppo sport, che mi faccio troppi problemi sul cibo. Che poi, fondamentalmente, è come se mi dicessero "come fai a rimanere grassa, mangiando così?".
Scusate per questo post frivolo e immaturo. Ve l'ho detto, mi vergogno io per prima di fare questi pensieri, ma è più forte di me. 
E mi sa che alla fine opterò per il total black.

lunedì 5 ottobre 2015

"Prima il dovere, poi il piacere" o "Prima la passione, dopo il resto"?

Settimana scorsa la mia bilancia si è rotta: la sua rottura è capitata a fagiolo, dato che provenivo da giorni di festeggiamenti ed ero in procinto di partire per una vacanza post-laurea programmata da tempo, ed è tornata in attività solo oggi, grazie all'intervento risanatore di mio padre, ma la tradizione impone che ci si pesi al mattino, perciò non so ancora di preciso quanto sono ingrassata, ma so di essere ingrassata. 
Negli ultimi dieci giorni ho mangiato senza controllo, necessaria conseguenza dell'aver vissuto senza controllo: niente lavoro, niente studio, nessuna responsabilità. Ho programmato di non programmare nulla, e so che suona surreale, ma è l'unica possibilità che chi è abituato ad avere tutto sotto controllo ha per rilassarsi. Ho pianificato di perdere il controllo, proprio come anni fa pianificavo le mie abbuffate e le pregustavo per giorni, le studiavo nei minimi dettagli, ed eseguivo il piano con maniacale precisione. Così ho fatto solo quello che avevo voglia di fare e non ho avuto remore a declinare inviti, ho mangiato quello che avevo voglia di mangiare quando ne avevo voglia, ho detto quello che volevo dire senza sforzarmi di essere necessariamente carina con tutti, e l'ho fatto con leggerezza solo perché sapevo che sarebbe arrivato il momento di riprendere il controllo, e quel momento è oggi.
Yogurt. 60 grammi di cous cous con le verdure. Due ore di ciclette. Pomodori e 50 grammi di prosciutto crudo. Addominali.
Si profila un impegno lavorativo per la mattina di domani, per la quale avevo in programma colazione e shopping con la mia amica M., quindi accetto l'impegno e rimando lo svago. Prima il dovere e poi il piacere, non è così?
Mi tocca anche decidere cosa fare del mio futuro. Mi sono data domenica prossima come limite ultimo per prendere una decisione, perché questo limbo mi angoscia, in barba a quelli che mi dicono "ma prenditi qualche mese di riposo, te lo sei meritato". Come me lo sarei meritato, scusate? Laurearmi in tempo con un bel voto era il mio dovere, non ho fatto niente che non potesse fare chiunque altro, non ho fatto che il necessario, e mi sono già concessa una settimana di vacanza, mi sembra un "premio" onesto.
So di compagni di corso che progettano un anno sabbatico, sei mesi in estremo oriente, o semplicemente studiano per provare ad entrare al dottorato la prossima primavera. Io non potrei mai farcela, ho bisogno di un progetto a breve termine, ho bisogno di riempirmi le giornate, di fare qualcosa di costruttivo.
Davanti a me al momento un bivio: cercare lavoro nel mio campo - un campo insidioso, dal futuro incerto, un percorso forse frustrante, forse per altri aspetti invece estremamente arricchente - oppure iscrivermi ad un master che va in un'altra direzione. Una direzione che m'interessa, senz'altro, che mi intriga e mi affascina, ma che non è esattamente quello per cui ho studiato e che ho paura che possa, una volta abbandonato, mancarmi troppo.
L'unica certezza è che per adesso non ho voglia di rimettermi a studiare, come la mia amica R. che si è iscritta ad un'altra specialistica. Ho voglia di "sporcarmi le mani" con qualcosa di più concreto, di ricevere uno stipendio, di mettere da parte dei soldi per andare via di casa, non che non ci stia bene, ma ho voglia di essere indipendente, pienamente adulta. Mia madre, che invece teme l'arrivo di un distacco che si era già profilato un annetto fa, di questi tempi, poi rimandato per sua fortuna, mi invita a prendermi tempo per capire cosa voglio davvero, di non essere impaziente di avere uno stipendio, di continuare la mia formazione, anche se frequentare il master potrebbe impedirmi di tenermi il mio lavoretto attuale, una cosa di poco conto e senza prospettive, ma sufficiente ad assicurarmi una certa indipendenza economica, un'entrata stabile che da quasi sei anni mi solleva dal fastidio di dover chiedere ai miei genitori i soldi per uscire a mangiare. Sarebbe triste, ora, rinunciarvi, e tornare a dover rendicontare i soldi della benzina a mamma e papà. 
Non credo di essere avida se desidero uno stipendio "vero" a ventiquattro anni, se ho voglia di mettermi in gioco in qualcosa di diverso dalla rassicurante vita universitaria, di cominciare a progettare la mia vita "da grande".
D'altra parte le iscrizioni per il master chiudono a breve, e se mi metto a cercare lavoro e non lo trovo rischio di trovarmi senza lavoro e senza master, e iscrivermici l'anno prossimo non farebbe che allontanare il momento dell'agognata indipendenza. 
Mi sento come Alice nel Paese delle Meraviglie, intrappolata in un corridoio dalle molte porte, tutte chiuse, senza possibilità di sbirciare i sentieri che si aprono alle loro spalle, e senza sapere davvero che cosa voglio io per prima, che forse sono solo troppo impaziente di vedere il mio nome su una busta paga, o forse ho solo troppa paura di allontanarmi per sempre dalle cose che ho studiato e che amo, e che già anni fa hanno saputo trascinarmi via da un'altra facoltà alla quale ero già immatricolata, in un'università prestigiosa che prometteva molti sbocchi lavorativi, perché, come mi scrisse il mio migliore amico sul frontespizio di un libro che mi regalò anni fa, viene "prima la passione, dopo il resto."