mercoledì 25 marzo 2015

nessuno si salva da solo (?)

Peso: 64,4 kg

È il titolo di un film che ho visto al cinema domenica sera (e dell'omonimo libro dal quale il film è tratto, che però non ho letto), la cui protagonista femminile è un'ex anoressica che, dopo un matrimonio e due bambini, non ha risolto i suoi problemi con il cibo né, tantomeno, altre sue ossessioni (le malattie, la sporcizia e quant'altro) che finiscono per deteriorare il rapporto col marito e con i figli.
Prima di vederlo non sapevo di cosa parlasse; cioè, sapevo che era ambientato al tavolo di un ristorante dove i due, dopo essersi lasciati, d'incontrano per decidere come "dividersi" i figli per le vacanze, ma non sapevo che lei fosse anoressica, se no forse non sarei andata a vederlo. Sono un po' prevenuta sui film che trattano l'anoressia: di solito è affrontata con superficialità e pressappochismo e lo trovo molto fastidioso, invece in questo caso il tema non è né spettacolarizzato né semplificato, ma è trattato in modo delicato e sottile, e l'ho apprezzato molto.
Ma il punto non è la resa cinematografica dell'anoressia, il punto è il sostrato del titolo e forse chiave di volta dell'intero film: "nessuno si salva da solo" dice uno sconosciuto che ha visto i due litigare al ristorante e pensa in questo modo di aiutarli. Nel film, lui non riesce a salvarla - o meglio, prima sì, poi no, poi forse sì...ma fatto sta che lei a quarant'anni al ristorante ordina solo un mini-sformato di spinaci e poi a casa si mangia la pasta fredda avanzata dalla cena dei figli - eppure il vecchio sconosciuto ammonisce: nessuno si salva da solo.
Voi cosa ne pensate?
Ricordo che l'analista che aveva organizzato la terapia di gruppo di cui vi ho parlato qualche volta diceva sempre che bisogna risolvere i problemi con se stessi prima di cominciare una relazione, che, per dirla in parole povere, chi non ama se stesso non può amare un'altra persona.
Io, invece, non la penso così. Forse la mia è un'opinione "di parte" perché se dovessi dare ragione all'analista in questione dovrei accettare la condanna ad una vita di miseria e solitudine, ma mi sembra una presa di posizione troppo rigida ed estremista, che non accetta sfumature e non valuta altre "angolazioni" del problema.
Io non penso che non si possa amare con sincerità un'altra persona pur odiando se stessi. Non vedo correlazione tra le due cose, sinceramente. 
Credo, anzi, che si possa provare un amore colmo di riconoscenza e in parte di meraviglia per chi scorge in noi qualcosa di bello, quando noi non vediamo altro che schifo.
Io, per esempio, mi considero una persona egoista e cattiva, subdola e meschina, arrivista e bugiarda, ma il mio fidanzato non vede quello che vedo io, vede una persona generosa e disponibile, spesso troppo disfattista e pessimista, ma non cattiva. E io cerco costantemente di smussare i miei aspetti più negativi per adeguarmi il più possibile all'immagine che lui ha di me, perché sento di poter essere migliore, di doverglielo in cambio di tutto l'amore che mi ha dato e mi dà. Ed è vero che il rischio è di aggrapparsi ad un'altra persona per non sprofondare nella propria sofferenza, ma non è questo il senso dell'amore, e non solo per chi ha un disturbo mentale o alimentare? Cercare il sostegno di qualcuno per non affrontare da soli le brutture del mondo? "Appoggiati a me, che se ci dovesse andar male, cadremo insieme e insieme sapremo cadere" canta Ligabue, ed io sono d'accordo.
Credo nel potere salvifico dell'amore, e non parlo solo dell'amore romantico di un partner, ma dell'affetto di un amico di cui ci fidiamo, dell'amore sconfinato di una madre o di un padre. Credo che ognuno di noi meriti di avere qualcuno che si preoccupa per lui e che vede oltre i suoi difetti, per quanti e quanto grandi siano. Se siamo abbandonati alla solitudine, al solipsismo senza vie di fuga di un'anima malata, a che pro guarire? Nessuno si salva da solo e nessuno si salva per sè, aggiungerei: chi si odia non guarisce per se stesso. O almeno, io, sopraffatta dall'odio per il mio corpo e per la mia mente troppo debole, non avrei mai voluto salvarmi. Ho desiderato di morire, e rendermi conto di non essere sola, accorgermi della sofferenza che avrei arrecato a chi mi amava se mi fossi lasciata morire, mi ha salvata. 
È vero che è solo un palliativo, è vero che per salvarsi davvero bisogna fare quel passo in più e capire che lo facciamo per noi stesse, ma è altrettanto vero che a volte abbiamo bisogno di qualcuno che afferri la mano che tendiamo, che ci aiuti a risalire la china, che ci faccia capire che la nostra salvezza non è vana, che non passerà inosservata come inosservata ci era sembrata che fosse la nostra sofferenza.
E voi cosa ne pensate? L'amore vi ha salvate o avete pensato di non meritarlo? Siete d'accordo sul fatto che "nessuno si salva da solo"?

giovedì 19 marzo 2015

il grande paradosso: bulimia = guarigione



Peso: 64,1 kg

In questi giorni, su alcuni dei vostri blog e nei commenti al post precedente, si parlava del binge e del suo “statuto ontologico”: è o non è una malattia? Io non ho esperienza di binge eating – le mie abbuffate di un tempo, come ho raccontato diverse volte, erano sempre programmate e anticipate/seguite da giorni di restrizione, mentre al momento sono in una fase in cui non riesco ad assaporare il cibo se sono da sola e, dato che non mi è quasi mai capitato di abbuffarmi di cose che non mi piacciono, il rischio di cedere alle abbuffate è abbastanza basso – ma posso fare riferimento alla bulimia.
Come molte ragazze anoressiche che conosco e che ho conosciuto, per me la bulimia è stato il primo passo verso la guarigione. Razionalmente so che la bulimia è una malattia al pari dell’anoressia, ma mi si era talmente impressa nella mente l’equazione “non mangiare è sbagliato – mangiare è giusto” che il solo fatto di mangiare (anche se poi vomitavo) mi dava l’impressione di essere guarita. Tra l’altro uno dei medici che aveva seguito la mia amica M. nella clinica dov’era stata ricoverata le aveva detto che vomitare dopo aver mangiato era sicuramente preferibile al non mangiare affatto perché una parte del cibo assunto, anche se una minima parte, riusciva comunque ad essere assimilata.
Insomma, mi ero convinta che la bulimia (che io non definivo ‘bulimia’ ma chiamavo, con un’astuta perifrasi ‘mangiare e poi vomitare’) fosse un ottimo compromesso: potevo mangiare come le persone normali e rimanere magra. Avevo la botte piena e la moglie ubriaca, come si suol dire.
Pensavo che avrei fatto così per tutta la vita, sinceramente. Ero diventata talmente abile da essere velocissima a vomitare e quando uscivo dal bagno non avevo gli occhi rossi e gonfi come M.: avevo una specie di dote, ero una bulimica bravissima. E la cosa assurda è che mi sentivo sana e guarita! Non mi sono mai sentita tanto ‘normale’ come nel mio periodo bulimico (durato, a più riprese, circa un paio d’anni), anche perché una sera la mia migliore amica mi aveva confessato di aver passato l’ultima settimana a vomitare dopo tutti i pasti. Ed ecco la conferma che aspettavo: L. era (ed è) una persona normalissima, che non aveva mai sofferto di disturbi alimentari ma vomitava dopo i pasti come me. La conclusione del sillogismo era ovvia: vomitare è normale, lo fanno anche ragazze normali, posso farlo senza sentirmi in colpa.
E poi i segnali della guarigione c’erano tutti: avevo ripreso le energie, i capelli avevano smesso di cadere, il mio peso era salito fino a sfiorare – ma senza superare – i cinquanta chili e mi sentivo piena di forza e persino a posto con la coscienza. I miei amici erano convinti che stessi bene, ne erano convinti i miei genitori e i miei professori e ne ero convinta soprattutto io.
Poi c’è stata quella maledetta radiografia dal dentista per scoprire se avessi o meno i denti del giudizio – che poi, che senso ha saperlo in anticipo, dico io? – ed è emerso che i miei molari erano praticamente tutti marci, corrosi dai succhi gastrici. Il dentista mi ha proposto di rifare tutti i denti in ceramica, visto che anche gli altri erano un po’ ingialliti e indeboliti dalla mia pratica quotidiana, e a me stava bene: magra e con i denti bianchissimi, il top.
Peccato che poi sia venuta fuori la storia dell’esofago, sul quale si erano aperte delle piccole ulcere. Continuando a sottoporlo ai succhi gastrici, mi dissero, le ulcere si sarebbero allargate e forse sarebbe successa la stessa cosa allo stomaco e l’ulcera allo stomaco è considerato uno stato pre-canceroso (in pratica avere delle ulcere allo stomaco aumenterebbe esponenzialmente la possibilità di sviluppare tumori, non so se me l’abbiano detto solo per sfruttare la mia terribile ipocondria o se sia vero).
E così, a malincuore e con qualche iniziale ricaduta, mi è toccato abbandonare quella rassicurante routine. Ho smesso di vomitare dopo ogni pasto e ho messo su quasi venti chili.
Non vomito da un anno e mezzo e cerco di evitarlo più di quanto mi preoccupi di evitare la restrizione alimentare perché so che per me la bulimia è una seduzione molto più subdola dell’anoressia, proprio perché non riesco ad associarla ad uno stato di sofferenza, cosa che invece mi riesce molto più facile per quanto riguarda l’anoressia. Da anoressica ero debole, con gli occhi scavati e mi rimanevano in mano le ciocche di capelli quando mi facevo la coda, mentre nel periodo in cui mangiavo-e-poi-vomitavo stavo bene. Non avevo paura di mangiare troppo, non dovevo privarmi di nulla: come vi dicevo prima, non mi sono mai sentita più “guarita” di allora.
Ogni volta che esco a mangiare (e mangio più del dovuto) ho l’abitudine di far visita al bagno del ristorante. Mi piazzo davanti allo specchio e penso a quanto sarebbe facile buttar giù un bel po’ d’acqua, infilare due dita in fondo alla gola e lasciare i miei errori in quel bagno. Ma poi mi lavo le mani ed esco, perché non voglio ricaderci, perché sono troppo forte o troppo debole per farlo, ancora non ho capito.

martedì 17 marzo 2015

vorrei essere ipertiroidea e invece sono solo un'ex anoressica bipolare



Peso: 64,5 kg

Tra due mesi vado al mare. Solo per qualche giorno, con la mia amica S. e i nostri fidanzati, in Sicilia. Ma dovrò mettere gli shorts, scoprire le mie orribili cosce flaccide e forse persino mettermi in costume. E io odio vedermi in costume. Mi vedo grassa anche nelle foto di quando pesavo venti chili meno di ora, quindi vi lascio immaginare quanta voglia abbia di esporre le mie cicce traballanti e pallide.
Vorrei perdere (almeno) quattro chili per allora, e ricominciare a fare addominali ed esercizi per i glutei e per l’interno coscia, ma non ho abbastanza tempo libero per gli esercizi e per quanto riguarda il peso sto attraversando una nuova fase di stallo, complice una vita sociale particolarmente fervida in questo periodo.
Settimana scorsa eravamo da soli io e mio padre e mi è toccata qualche cena più ricca del solito, che ho tentato di bilanciare tenendomi leggera a pranzo, poi è arrivato il week-end con pranzo dai suoceri e festa di compleanno della mia amica – maledetti buffet. Maledetti maledetti buffet. – e da domenica a oggi sono stata ospite da un’amica e ho mangiato molto di più di quello che avrei mangiato se fossi stata a casa da sola. Tipo che ieri sera ho cenato con una pizzetta di sfoglia (non potevo evitarla, avevano comprato delle schifezze per l’aperitivo e hanno preso le sfoglie apposta per me, perché senza lievito) hamburger di soia e patate al forno, due bicchieri di prosecco, due cucchiai di salsa tartara e oggi a pranzo piadina con hummus e io cerco di non abbinare mai i ceci ai carboidrati, però mi sarei sentita in colpa a rifiutare. Ho persino mangiato mezza brioche al pistacchio, perché ho una specie di insana passione per il pistacchio.
Mi sento intossicata dal cibo, vorrei solo poter mangiare yogurt e fette di tacchino per il resto della settimana, anche perché alla fine di settimana prossima parto con il mio fidanzato e per me le vacanze sono sempre state una finestra di pace nella lotta contro il cibo e contro me stessa e non voglio rovinare quest’idillio di lunga data.
La cosa positiva è che almeno non sono ingrassata, ma finisco persino per infastidirmi per il fatto che il mio peso sia rimasto costante sui sessantaquattro anche in settimane in cui mangiavo sano e controllato. Sarà anche che nelle ultime due settimane ho fatto dei casini con la terapia per la tiroide dimenticandomi di prendere la dose giornaliera e prendendola in momenti diversi della giornata. E comunque questa terapia non funziona: mi sento sempre stanca e senza forze, ma devo aspettare il ventidue aprile per vedere l’endocrinologo.
Se incontrassi il genio della lampada gli chiederei due mesi di ipertiroidismo.
In ospedale, quando sono andata a fare l’ecografia alla mia tiroide pigra, ho incontrato una ragazza che mi ha raccontato di aver passato “due mesi d’inferno” perché si svegliava di notte affamata come se non toccasse cibo da giorni e mangiava come un’ossessa. Pacchi di biscotti, confezioni di sottilette, barattoli di gelato ogni notte. E perdendo mezzo chilo al giorno.
Io venderei la mia anima al diavolo per una cosa del genere. È il mio sogno da quando ho deciso che non volevo più essere anoressica, poter mangiare senza aver paura di ingrassare, quello che ho sussurrato a tutte le stelle cadenti dal 2010 ad oggi, più di laurearmi con centodieci e lode, più di vincere un dottorato. Vorrei essere ipertiroidea. Che desiderio del cazzo.
Ma non per sempre, solo per qualche mese, per poter mangiare senza sentirmi in colpa. Perché a me, purtroppo, piace mangiare. Mi piacciono le cose buone, il pesce, il vino rosso corposo, la pasta fatta a mano. Mi piace mangiare in compagnia, provare un nuovo ristorante fusion – sulla lista ora c’è lo smooshi, cucina danese, l’avete mai provato? – fare la gita alle cantine aperte di Valdobbiadene, scroccare un ingresso a VinItaly, andare alla fiera del tartufo ad Alba,  da Eataly, a mangiare pizzoccheri in Valtellina.
Ma poi mi sento in colpa, non dormo perché penso che al mare sarò sempre la più grassa, che non rientrerò mai più nella 38, che sembrerò una crescenza molle in costume. Però nel frattempo bazzico su tripadvisor alla ricerca del miglior sushi di Milano.

mercoledì 11 marzo 2015

amici e dca, fino a che punto è lecito mentire?



Peso: 64,5 kg

Oggi è il compleanno di una delle mie più care amiche, S., che secondo me è bellissima ed ha una sensibilità superiore alla media e io ho sempre voluto essere bella come lei. Per festeggiare siamo andate a pranzo da Cioccolati Italiani, una catena di gelaterie/pasticcerie che offre anche un ristretto ma sfizioso servizio ristorante la cui specialità è la pasta al cacao - so che può suonare disgustoso, e in effetti sulle prime anche io non ero molto convinta, ma è praticamente pasta normale nel cui impasto viene aggiunto del cacao amaro e non sa di cioccolato, ha un sapore molto speziato, più che altro, ma non è dolce né niente del genere – e abbiamo diviso due piatti diversi, come facciamo spessissimo, così possiamo assaggiare due cose anziché una sola.  
Io e lei ci siamo conosciute all’università, nelle primissime settimane, e nel corso degli anni siamo diventate inseparabili. In triennale abbiamo dato gli stessi esami negli stessi giorni (per poterli preparare insieme) e prendendo quasi sempre gli stessi voti! Ci siamo laureate nella stessa materia (anche se con tesi diversissime) lo stesso giorno e con lo stesso voto e ci siamo iscritte allo stesso curriculum in magistrale. Detto così sembra quasi inquietante, me ne rendo conto, ma in realtà non siamo di quella razza di amiche simbiotiche che si esauriscono l’una nell’altra e vivono relazioni intense ed autoreferenziali con pochissimi contatti con l’esterno, è “soltanto” una delle due persone con cui ho più legato all’interno del gruppo degli amici  dell’università ed è sicuramente una delle mie confidenti più fidate, la persona cui penso subito quando devo raccontare qualcosa a qualcuno.
Le voglio un bene dell’anima e sento che la nostra amicizia non finirà se e quando le nostre strade dovessero separarsi, eppure io non sono mai stata totalmente sincera con lei. Ci sono cose del mio passato (e in parte del mio presente) che non sa e che, e forse questo è ancor più grave, non voglio che sappia.
Ad esempio non sa nulla del mio dca. O meglio, sa qualcosa e forse sa che c’è altro che non le ho detto, ma non hai mai chiesto e io non ho mai raccontato nulla di specifico. Non perché tema il suo giudizio o abbia paura di essere controllata, è solo che…avete presente quando vi viene in mente una cosa da dire durante una chiacchierata tra amici ma poi il discorso prosegue e prende un’altra direzione e voi decidete che non ha più senso dire la cosa che avreste voluto dire, perché sarebbe ormai fuori luogo? Ecco, io mi sento così.
È come se l’occasione per parlare dei miei problemi con il cibo fosse arrivata, tempo fa, e io l’avessi persa. Poi sono successe altre cose, troppe altre cose per poterla recuperare. Come il fiume che porta ad ogni piena i suoi detriti e i detriti vecchi vanno sempre più a fondo e diventa impossibile tirarli fuori; che poi, il detrito-dca è un masso bello grosso e si porterebbe dietro un bel po’ di altre cose e finirebbe per provocare una valanga. Disturbi ossessivo-compulsivi, ipocondria, depressione, persino un periodo in cui compravo in maniera incontrollata (in America chi soffre di questo disturbo è chiamato ‘shopaholic’, in Italia il mio analista l’aveva semplicemente inserito nel corollario delle manie ossessivo-compulsive), anoressia, bulimia, insonnia e psicofarmaci.
Troppa roba per tirarla fuori così, di punto in bianco. Se le raccontassi tutto sui miei anni del liceo alla fine della conversazione sarei una persona diversa ai suoi occhi. Voglio essere per lei quella con cui si è rotolata al parco stretta in un lenzuolo, non quella che si è scolata una boccetta di guttalax perché per sbaglio aveva ingoiato una cicca e sulla confezione non c’era scritto se contenesse calorie.
Ora, ridimensioniamo un attimo la cosa: non è che con lei fingo di essere un’altra persona. Semplicemente, ho limato alcuni aspetti del mio disturbo. Negli anni, soprattutto nel periodo in cui s’era unita al gruppo la ragazza di cui ho parlato qualche post fa, mi è capitato di raccontare qualcosa, ma stando bene attenta a rimanere nel campo del raccontabile. Sì, al liceo vomitavo tutte le mattine per l’ansia (e per dimagrire). Non mi piace molto prendere la metro (una volta ho avuto un attacco di panico così violento che ho quasi perso conoscenza). Quando avevo diciott’anni ero molto più magra (ma stavo diventando calva).
Il punto è che quando ho cominciato l’università ero in una fase di totale rifiuto del passato. Volevo aprire un capitolo nuovo della mia vita, lasciarmi tutta la merda alle spalle, essere una persona nuova. Agli occhi dei nuovi amici che mi sarei fatta non volevo sembrare una pazza problematica, volevo essere una persona simpatica e alla mano, essere l’anima della festa, quella che organizza le serate, fa inviti a cena e dice sempre sì alle proposte. Ed ha funzionato talmente bene che le persone con cui ho pranzato il primo giorno di lezioni sono le stesse con cui ho pranzato oggi e le stesse con cui spero di pranzare il giorno in cui andrò a vivere da sola, il giorno in cui annuncerò loro che mi sposo o che aspetto un figlio.
Però io questo non lo potevo sapere. Io all’epoca pensavo sì di fare molte amicizie, ma credevo che sarebbero state amicizie superficiali, che avremmo parlato di professori e compagni di corso e tesi di laurea e saremmo andati a ballare insieme, non che avremmo conosciuto le rispettive famiglie, saremmo andati in vacanza insieme, avremmo aspettato l’alba sotto le stelle raccontandoci i nostri più grandi sogni e le nostre più grandi paure. Non pensavo, quindi, di dover dire loro tutta la verità. E ora non posso più farlo, perché non è una cosa che puoi raccontare così, quando finiscono gli argomenti di conversazione a cena.
E a S. racconterei tutto, ma non che ho saltato la cena. E alle volte non capisco se questo mini alla base la nostra amicizia o se faccia semplicemente parte di quei segreti che ognuno di noi ha e che può permettersi di non rivelare al mondo.
(Scusate per l’esposizione un po’ confusa, ho cercato di fare una sintesi per non scrivere un post troppo lungo ma ho paura di aver sacrificato un po’ la comprensibilità della faccenda.)

martedì 3 marzo 2015

a piedi nudi sull'erba - sprazzi di felicità



Peso: 64,4 kg

L’arrivo della primavera mi mette di buon umore.
Marzo è cominciato portando con sé tutti i segnali dell'imminente primavera: sono ricominciati i corsi all’università, non devo più sghiacciare il parabrezza al mattino, posso lasciare a casa i guanti e ascoltare la radio col finestrino abbassato, che per me è sempre stato il segno che sta arrivando la bella stagione.
Quello appena trascorso, poi, è stato un weekend piacevole e rilassante: domenica sono andata a vedere una mostra di fotografia col mio fidanzato in una città qui vicino e abbiamo fatto una passeggiata nell’enorme parco in cui si trovava la sede della mostra; faceva (quasi) caldo e il prato era pieno di gruppi di amici che facevano pic-nic e famigliole con cani e bambini. Mi sono tolta le scarpe e ho camminato a piedi nudi sull’erba; è una sensazione che adoro e in quel momento, con il sole che mi inondava il viso e le risate della gente in sottofondo, mi sono sentita davvero viva.
Ho ripensato a quella primavera di ormai sette anni fa in cui non avevo più le forze di passeggiare nel parco e il sole non riusciva a scaldare il freddo che mi gelava le ossa e poi a tutte le volte che ancora mi privo delle cose che mi fanno stare bene.
Mi sono sentita bene. Leggera, nonostante i chili di troppo, e felice.
Ho riprovato la stessa sensazione di leggerezza anche ieri sera. Il fratello di una mia amica ha organizzato una serata al kartodromo e siccome - e qui vi stupirò – sono un’appassionata di motori ma non salivo su un kart da anni ho deciso di aggregarmi al gruppo. Mi piaceva l’idea di passare una serata diversa, qualche ora di divertimento puro, senza pensieri. Solo il vento che s’infila nel casco e l’asfalto che sfila veloce sotto le gomme.
All’inizio ero un po’ nervosa, perché c’era un sacco di gente che non conoscevo e (a parte il nostro gruppo) erano tutti sulla quarantina, frequentatori abituali del kartodromo e anche eccessivamente competitivi. Inoltre io, la mia amica e la sorella del mio fidanzato eravamo le uniche donne! Però, vi giuro, mentre percorrevo la pista col kart avevo il sorriso sulle labbra. Mi sentivo anche un po’ stupida a sorridere sotto il casco però, vabbè, nessuno avrebbe comunque potuto vedermi.
A fine serata ero tutta dolorante – e non vi dico ora: ho dei lividi enormi all’altezza delle scapole, il collo indolenzito e dopo un po’ che sto seduta mi fa male il sedere – però mi sentivo allegra ed euforica come una bambina. E poi ero contenta di aver fatto passare una serata divertente alla sorella del mio ragazzo che non esce mai, passa la sua vita chiusa in camera a studiare e sembra che i suoi amici non facciano mai nulla.
Insomma, sono in una sorta di trip positivo. Non so quanto durerà, ho già paura che il primo giorno di pioggia o di noia (o, peggio, un chilo in più sulla bilancia) possano rovinare questo inatteso ed insperato buon umore, ma m’impegnerò a fare in modo che non accada.
La scorsa primavera non me la sono goduta affatto e devo recuperare. Anzi, ho tanti giorni bui da recuperare che probabilmente non mi basterebbero tutte le primavere della mia vita, ma intanto comincio da questa.
Vi auguro – e vi auguro – un inizio di marzo col sorriso sulle labbra. Ci meritiamo tutta la felicità che ci siamo sempre negate, ragazze!
Un abbraccio a tutte!