Scusate
se sono un po' assente dai vostri blog, se non ho ancora risposto ai
vostri commenti e se sono così incostante, ma è stata un'altra settimana
densa, cominciata con una telefonata che mi riscuote dal sonno per
invitarmi a presentarmi a scuola "il prima possibile" perché il mio
contratto è stato prolungato fino al 5 dicembre e
conclusasi con il ritorno di un'amica storica, quelle che anche se vedi
di rado ti fa sempre piacere sentire ogni tanto, dopo un anno in
Australia. In mezzo, un gesto eroico o folle, a seconda di come lo
vogliate vedere: mi sono licenziata per essere presente alla laurea del
mio migliore amico.
Qualche
necessario chiarimento: il mio contratto non aveva possibilità di
essere ulteriormente rinnovato perché dal primo dicembre nelle scuole
pubbliche saranno in servizio gli ultimi immessi in ruolo, assunti senza
che ci fosse una cattedra per loro ma come "tappabuchi", cioè con
l'obbligo di starsene in sala insegnanti ad aspettare una supplenza
oraria, una sostituzione di un paio di giorni o un ragazzino che ha
bisogno del sostegno.
Una situazione paradossale per cui una collega di trentanove anni che
da precaria insegna inglese ora si ritrova a fare la riserva, benché di
ruolo. Fatto sta che questi neo-assunti hanno (giustamente) la
precedenza su di me, quindi ammesso che la prof che sostituisco decida
di prolungare la sua malattia, io dovrei comunque lasciare spazio a chi
ha più titoli di me, perciò nella più rosea delle ipotesi avrei potuto
al massimo lavorare fino alla fine della prossima settimana.
Punto
secondo: i supplenti a tempo determinato non hanno diritto a nulla,
neppure alla malattia. Il che significa che se ti ammali e devo
necessariamente stare a casa il tuo contratto viene automaticamente
estinto e può, tutt'al più, essere rinnovato a partire dal giorno in cui
ritorni in servizio, perciò ferie non pagate e con la possibilità di
essere licenziati perché si ha avuto l'ardire di prendersi
un'influenza.
Punto
terzo: il 4 dicembre parto per un viaggio con il mio fidanzato, S. e il
suo fidanzato, è il regalo che i fidanzati hanno fatto a me e alla mia
amica per la laurea. Stiamo via per il ponte, nella città che più amo al
mondo, ed abbiamo già prenotato un sacco di cose bellissime.
Rinunciarvi sarebbe impensabile, e partire il 5 costa come il mio
stipendio settimanale. Quindi avrei comunque dovuto licenziarmi il 4, e
questo era già deciso.
Comunque,
sono andata nell'ufficio della preside e le ho detto che avevo un
impegno universitario fissato da mesi, una cosa importante per la mia
carriera, e che avevo bisogno di almeno due ore di permesso, se non di
tutta la giornata, ma lei è stata irremovibile, così le ho proposto di
chiudere il contratto per, eventualmente, riaprirlo se non avessero
trovato nessuno per sostituire una sostituta, ma il sostituto è stato
trovato, dato che il giorno successivo una delle mie studentesse mi ha
scritto un messaggio privato su Facebook chiedendomi di ritornare
immediatamente, che in classe c'era una nuova supplente ma loro volevano
me.
Vi
dirò che la mobilitazione degli studenti mi ha commossa: i ragazzi di
quarta in consiglio di classe hanno detto che mi rivolevano, quelle di
seconda hanno chiesto ai loro genitori di mandare una lettera al
provveditorato per chiedere di avermi con loro per tutto l'anno e io mi
sono sentita molto in colpa per averli abbandonati così, ma se fossi
mancata alla laurea del mio migliore amico non me lo sarei mai
perdonata.
Io
sono quel tipo di persona. Quella che se S. chiama perché è stata
lasciata dal suo fidanzato molla tutto e la raggiunge nel cuore della
notte, quella che passa pomeriggi in biblioteca a studiare per un esame
che non deve dare, solo per fare compagnia ad I., quella che si fa la
notte in bianco per correggere la tesi di M. il giorno prima della
consegna, quella che se un'amica chiama da Londra per dire che è in
crisi nera dopo qualche ora è già in aeroporto, con due cambi, il
cofanetto di Sex and The City e trecento grammi di gorgonzola.
Se
state pensando che sia pazza, probabilmente avete ragione. So che
sbaglio, ma è una malattia atavica ed incurabile. Vi basti sapere che ho
trascorso buona parte della mia festa dei diciotto anni a reggere la
fronte alla mia amica M. che stava vomitando l'anima perché aveva avuto
la bella idea di bere come un camionista bulgaro dopo aver preso
l'antibiotico.
Io
sono così. Sono sempre stata così, nonostante una lunga sfilza di
delusioni abbia tentato di insegnarmi ad essere egoista. Sono sempre
l'amica su cui si può sempre contare, sebbene tante volte mi sia
ritrovata sola quando ero io ad aver bisogno di qualcuno.
E
allora, direte voi, perché insisto? Perché continuo a dare tutta me
stessa, se non ricevo mai in cambio nulla? Un po' perché è insito nella
mia natura, come quella volta che L. stava per essere investita dal tram
e il mio primo istinto, anziché gridare o trascinarla sul marciapiede, è
stato di pararmi di fronte a lei. Un po' perché ogni volta mi dico che
non può andare sempre male, che prima o poi incontrerò qualcuno che
meriti questi gesti estremi perché farebbe altrettanto per me.
Ecco,
I. è una di queste persone. Non è che lo pensi di tutti i miei amici
più cari, se non sono diventata egoista almeno sono riuscita a diventare
un po' più selettiva, e su alcuni di loro, per quanto possano volermi
bene, non scommetterei neppure pochi euro. Ma con I. è diverso. I. è una
di quelle persone con cui non ci sono filtri, né pudori. Non ho
vergogna a farmi vedere struccata o in lacrime, a confessare le mie
debolezze e le mie angosce, molto di più di quanto riesca a fare con L.,
che pure conosco da una vita e per me è una sorella (credo più che
altro per una questione di diversità di caratteri, lei è una persona
molto introversa e fredda e credo la imbarazzerei dicendole quanto bene
le voglio) o con S., che è una delle persone più simili a me che
conosca. E, sopratutto, I. ha la mia stessa propensione a fare di tutto
per rendere felici le persone che ama, a costo di starci male lui.
Una
delle nostre sere di profonde riflessioni e discorsi sull'amore e sul
futuro abbiamo toccato anche questo argomento: il nostro problema, ci
siamo detti, è che ci convinciamo che gli altri farebbero per noi quello
che noi siamo disposti a fare per loro, ma nella maggior parte dei casi
non è così, e noi ne soffriamo. Noi eroi romantici pronti a morire per
le persone che amiamo e i nostri fidanzati persone splendide, che ci
amano oltremisura, ma inguaribili egocentrici, che per inseguire i loro
obiettivi non esitano a fare delle scelte egoiste, come il mio che
accetta un lavoro che non gli permette di vederci tutti i giorni al
posto di un altro a 900m da casa mia, come il suo che rimanda un viaggio
insieme per seguire la sua relatrice a
Parigi.
Sono
per altro piuttosto convinta che questo mio "difetto", di voler
compiacere gli altri a tutti i costi, di volerli colmare di affetto al
prezzo di svuotare me stessa, sia stato uno degli ingredienti della
malattia. Nel periodo dell'anoressia speravo ogni giorno che le mie
amiche venissero a trovarmi a casa, che cambiassero i loro piani del
sabato sera per stare sedute sul letto con me, che mi tenessero la mano
mentre provavo ad addormentarmi, come avevo fatto io tante volte con M.,
quando lei era malata. Ma loro non venivano mai, ed io annegavo nella
mia solitudine. Non che se ne fregassero di me, mi scrivevano e
chiamavano sempre, cercavano di spronarmi ad uscire, ma non arrivavano a
fare per me quello che io avrei fatto per loro. Loro non sarebbero
venute a Villa Margherita, sapendo di non poter entrare, solo per
potermi scrivere "guarda che sono qui, sono vicino a te", come avevo
fatto con M., lo sapevo benissimo, eppure non riuscivo a smettere di
comportarmi nell'unico modo che conoscevo: dando tutta me stessa, in
tutto, sempre.
L'anoressia
era un modo per chiedere le attenzioni che io continuavo a dare agli
altri, ma non ha funzionato. Ero arrivata a pensare di dover morire
perché gli altri si accorgessero di me, e di quanto io avessi bisogno
del loro amore, ma alla fine ho scelto di vivere e di uscirne. Sola,
così come ci ero entrata.
Oggi
è diverso, non sento più quel freddo dentro, quell'ansia
dell'abbandono, la paura di non essere amata. Oggi so che se stessi di
nuovo male come sette anni fa non mi mancherebbe il sostegno degli
amici, eppure non ho ancora imparato a dosare l'affetto e a limitare lo
spirito di sacrificio e ancora rimango la vittima perfetta per le
delusioni.
Però
oggi non ho rimpianti. Fare il viaggio con I., abbracciarlo prima della
discussione e dopo, sapere di esserci stata mi fa sentire a posto con
la mia coscienza. Forse tra vent'anni penserò che sono stata una
cretina, forse invece sarò orgogliosa di quello che ho fatto, ma
comunque non avrei potuto agire diversamente, è più forte di me.
E voi, qual è la più grande follia che abbiate fatto per un amico o per amore?