Peso: 63,3 kg.
Ieri è stata una giornata densa ed emotivamente impegnativa.
Al
mattino si è laureato il fidanzato del mio migliore amico, e ci
sono stati momenti piuttosto pesanti perché i genitori di entrambi non
sanno della loro relazione e quindi ho dovuto sostenere il mio amico in
alcuni minuti di scoramento dovuti al fatto di dover fingere di essere uno
qualsiasi degli amici e non potersi comportarsi come avrebbe fatto una coppia "normale".
Abbiamo parlato tanto, ritornando a casa, della bellezza di sentirsi "normali" e dell'angoscia dei sensi di colpa,
della clandestinità, delle bugie. La conversazione mi ha messo in
crisi: capivo perfettamente l'anelito alla normalità, anche se per me
quella normalità è su un altro piano - non la possibilità di vivere una
normale vita di coppia, ma quella di avere una normale relazione col
cibo e col mio corpo - e capivo ancor meglio la rabbia per il fatto di essersi
imprigionati da soli in questa condizione - se loro due avessero avuto
il coraggio di confessare, ad esempio, non avrebbero dovuto nascondersi,
avrebbero potuto tenersi la mano prima della discussione, salutarsi con
un bacio dopo, farsi una foto abbracciati, orgogliosi e felici - e nel
contempo mi sentivo in colpa. In colpa perché la mia sofferenza mi
sembra indegna di tutta l'attenzione che le do, perché io piango per una
cena fuori, mentre lui piange perché teme di deludere i suoi genitori
dicendo loro che non avranno dei nipotini e razionalmente dovrei
riconoscere che il suo dolore merita di più del mio.
So
che è ridicolo stilare una gerarchia del dolore, che solo chi lo vive
in prima persona può coglierne la reale entità, eppure io mi sento in
colpa. Mi sento in colpa perché a volte mi sento soffocare e vorrei
gridare, ma non posso, perché sento di non avere il diritto di lamentarmi. Non mi
manca nulla, perché dovrei stare male? Eppure sto male e alla sofferenza
si aggiunge il senso di colpa.
Mi sento in colpa perché
qualche giorno fa ho letto su Facebook la lettera di una trentenne
morta di cancro al seno che voleva essere un inno alla vita, un monito a
ridimensionare i propri problemi e gioire delle piccole cose
quotidiane, che assumono tutto un altro senso quando una malattia così
ti obbliga a ricalibrare le tue priorità. E allora penso che se mi
dicessero che mi resta un anno di vita, forse sarei in grado di godere
di ogni cosa bella che mi capita e quelle brutte prenderebbero un'altra
luce, ma non riesco ad applicare questa legge del carpe diem, ne soffro, e mi sento in colpa.
Le
malattie invisibili. Così le chiamava il mio prima analista, che
sosteneva che il mio accanimento sul corpo, l'essermi ridotta ad uno
scheletro, fosse un inconscio tentativo di rendere tangibile la mia
malattia invisibile, come se servisse a darle concretezza e dignità.
Nessuno, diceva lui, direbbe ad un malato di cancro che la sua malattia
non è abbastanza grave per soffrirne, mentre è facile sottovalutare la
depressione, dire ad una persona depressa che non ha abbastanza motivi
per esserlo, generando un circolo vizioso di colpa e dolore, di dolore
perché ci si sente in colpa, di senso di colpa perché si prova ancora
più dolore.
È
un male senza nome quello che mi - ci - divora. Non lo possiamo vedere,
non lascia segni evidenti sulla pelle, eppure non possiamo dire di
stare bene, anche se apparentemente, ad un'occhiata superficiale, stiamo
davvero bene.
Negli
anni ho incontrato tante persone che soffrivano di depressione. Le ho
viste distruggersi con le proprie mani, ergersi attorno un muro di
dolore dal quale non riuscivano ad emergere, benché tecnicamente non ci
fosse nulla ad impedire loro di stare bene. Nessuna malattia, nessuna
delusione d'amore, nessun lutto da gestire. Eppure soffrivano, e il loro
dolore mi è sembrato così vero e profondo da farmi sospettare persino
che una malattia "invisibile" sia peggiore, più subdola e crudele, di
una malattia grave ma alla quale tutti possono dare un nome e
riconoscere dignità, per la quale riesci a sfogarti con gli altri, per la quale puoi trovare sostegno e comprensione.
Eppure,
se riesco a "perdonare" gli altri, riconoscendo loro il diritto di
soffrire, non riesco a concederlo a me stessa. Mi guardo intorno, ho dei
genitori che mi vogliono bene e mi sostengono nelle mie scelte, ho un
fidanzato che mi ama anche quando non mi capisce, pochi amici preziosi
sui quali so di poter contare sempre è un gruppo più allargato di
persone con le quali sto bene e che mi fanno sentire bene, un lavoro che
mi permette di togliermi più sfizi del necessario e di viaggiare, una
carriera universitaria quasi al termine che mi ha regalato tante
soddisfazioni, eppure non sono felice.
L'angoscia mi coglie senza
motivo, non riesco a pensare al futuro perché sul futuro si allungano le
ombre del passato e intanto il presente perde consistenza, mi sfugge mentre
cerco di trattenerlo. Aspetto qualcosa, ma non so neppure io cosa sia. A
volte penso che sia tornare a pesare meno di sessanta chili, a volte
penso che quello sia soltanto un pallido tentativo di oggettivare
quest'attesa senza senso. Forse aspetto solo di svegliarmi una mattina e non dovermi più confrontare con questi pensieri, sentirmi leggera non sulla bilancia, ma sul cuore.
Vi abbraccio forte e confido nel potere terapeutico del sole, che illumini un po' i miei cupi pensieri!