lunedì 20 aprile 2015

"tutto in funzione del cibo", ovvero 2377 giorni di prigionia

Peso: 64,9 kg

Questa sera i miei amici dell'Università vanno a cena da Eataly - è diventata una nostra simpatica tradizione uscire il lunedì sera, serata anti-sociale per eccellenza - ma io non vado. Ho detto loro che voglio lavorare alla tesi perché mercoledì ho appuntamento col mio relatore e devo portargli le ultime pagine che ho scritto, il che è anche vero, nel senso che vorrei finire il capitolo per potergli portare un bel malloppo di pagine dato che non lo vedo da prima di Pasqua, ma il motivo principale per cui rinuncio alla cena è che devo rientrare nei ranghi dopo gli eccessi del weekend e non sarei a mio agio se prendessi un'insalatina. Tra l'altro credo che loro vogliano andare alla sezione pizza&pasta (non so se conosciate Eataly, è un supermercato che fa anche da ristorante ma le aree ristorazione sono divise in base ai reparti: la zona del pesce, quella della carne, quella della pizza...perciò ci dev'essere un buon accordo su quello che si vuole mangiare se si va in gruppo!) e io non mangio carboidrati di sera a meno che non sia sabato o, in qualche caso eccezionale, domenica (ma solo se ho mangiato poco a pranzo).
Questo è, ne sono certa, l'aspetto più fastidioso della malattia: non essere liberi di accettare un invito. E la cosa più assurda è che a privarci di questa libertà siamo noi stesse! È una prigionia autoinflitta e per questo ancor più dolorosa, è peggio di quando, a quattordici anni, mia madre mi vietava di uscire le sere in settimana durante il periodo scolastico, a meno che non ci si trovasse per studiare.
È paradossale: non c'è niente che m'impedisca di accettare - non è una questione di salute, di soldi, neppure ad essere sinceri sarebbe un problema la tesi, perché potrei lavorarci questa notte o domani sera - ma SO di non poterlo fare. So che il mio programma per questa sera è due fettine di vitello e un caffè per darmi la carica e so che leggerò i loro messaggi per organizzarsi (perché sono dentro un maledetto gruppo di whatsapp) e mi dispiacerà non essere con loro a parlare delle mete delle vacanze, del master di M. e dei nostri progetti con l'università, ma domani mattina vedrò un numero più basso sulla bilancia e saprò di aver fatto la cosa giusta.
Come se, quando dovremo tirare le somme di questa breve e incasinata vita, un numero sulla bilancia contasse più di una serata con gli amici. 
Anni di terapia, di lotta, di piccole conquiste, ma ancora tutto ruota intorno a un numero. Tutto in funzione del cibo. Di quello mangiato, di quello che potrei mangiare, di quello che non posso mangiare. Il cibo occupa il 70% dei miei pensieri quotidiani. E se sto casualmente pensando ad altro, ecco che passo davanti ai cartelli di EXPO e mi viene da ridere perché il tema è - guarda un po'! - il cibo! L'universo intero trama contro di me, si fa beffe della mia ossessione, più prosasticamente mi prende per il culo.
Il pensiero del cibo tiene in scacco la mia esistenza da sei anni e sei mesi. Sono duemilatrecentosettantasette giorni. 2377 giorni di conteggio calorie, di "lo prendo quel gelato? No, poi dovrò fare il doppio delle addominali. Lo lascio lì", di ciclette, di creme per le smagliature, di psicofarmaci, di pianti in bagno, al ristorante, in macchina da sola nel parcheggio di un supermercato in cui ho comprato gli "ingredienti" per un'abbuffata. 2377 giorni e ancora non ne sono stufa. Se fosse una storia d'amore sarebbe quasi ora di metter su famiglia.
Per darvi un'idea di quanto la mia vita sia influenzata dal pensiero del cibo - ma so che mi capirete, posso immaginare che lo siano anche le vostre - vi racconto quello che è successo sabato sera. Ero a cena col mio fidanzato nel nostro ristorante giapponese preferito e io ero stata di umore abbastanza alto fino al momento in cui siamo entrati. Poi la folla, un sms della mia amica L. che non si sentiva bene e voleva vedermi (ma ormai ero lì, non potevo mandare a monte la cena e correre da lei!) e il pensiero imminente della pancia piatta che si sarebbe gonfiata mi hanno messa in crisi. Ho discusso con A. per le solite questioni - il suo lavoro che ci tiene lontani e la sua famiglia che puntualmente riesce a rovinare le nostre gite fuoriporta organizzando eventi di famiglia la domenica o ad agosto - e anziché essere triste perché stavamo discutendo e ci eravamo rovinati la serata ero triste perché non avevo più fame ma ormai avevo ordinato e avrei dovuto ingurgitare lo stesso calorie indesiderate. Perché mangiare controvoglia è così stupido, quando si potrebbe semplicemente non mangiare. Ero più concentrata sul fastidio che mi dava il fatto di stare "sprecando" la mia cena libera senza averne più voglia che sulla discussione che stavamo avendo. E rendermene conto mi ha fatto sentire una persona orribile, tanto che mi è persino venuto da piangere. Ad A. ho detto che piangevo perché mi sentivo in colpa per non essere andata da L. che aveva bisogno di me e lui ha detto che era un motivo sciocco, e sapere che il vero motivo era ancora più sciocco mi ha fatto sentire ancora più in colpa e più in ansia. 
Insomma, una serata disastrosa. Anche se poi ci siamo chiariti, mi ha accompagnata da L. e ieri abbiamo rimediato con una bella giornata insieme in cui sono stata bene e sono stata felice e l'ho anche portato di mia iniziativa a mangiare il gelato in una gelateria che ha scoperto il mio amico I. dove fanno un gusto stranissimo ai pinoli che a me piace un sacco, mi rimane un groppo in gola. Perché ieri ci ho messo un'ora a decidere come vestirmi perché stavo male con tutto e sembravo obesa e A. mi ha chiesto "come fai a vivere così?" ed io ho pensato che non lo so, che la sua domanda è perfettamente legittima, forse me la farei io stessa se mi potessi guardare da fuori.
 Eppure sono 2377 giorni che vivo così. Mi sono diplomata, fidanzata, laureata, tutto con quest'unico chiodo fisso: il mio corpo troppo grosso per essere portato in giro con tanta disinvoltura. Mi sento prigioniera in un corpo troppo grasso per la mia mente, ma forse la verità è che sono prigioniera della mia mente. 
Da sei anni, sei mesi, tre giorni e una manciata di ore.

22 commenti:

  1. E' proprio vero. Non si è liberi di non accettare un invito a cena per paranoie, ma cosa mangio e ma poi domani la bilancia me la fa pagare... Questo (insieme ad altri) è davvero un aspetto frustrante della malattia perchè veramente non si è liberi... si preferisce restare a casa sapendo cosa andremo a mangiare, ma questa, l'ho detto e lo ripeto, non è vita. Un bacio :*

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    1. Lo so bene. Lo so che non è vita, so anche che non vorrei vivere così, eppure non riesco a mettere a tacere quella voce che mi dice di stare a casa a fare ciclette anziché uscire a cena. E delle volte mi trincero preventivamente: se temo che un pomeriggio con un'amica possa concludersi con un aperitivo e io non ho voglia di sgarrare dico di no a prescindere privandomi anche della possibilità di passare qualche ora in compagnia senza lo spettro del cibo.
      È un incubo e lo so bene.
      Un bacio!

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  2. Stella ti sono vicina e mi rivedo nelle tue parole. Un abbraccio e sii forte :*

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    1. Il vostro sostegno per me è importantissimo, mi sento davvero come in quell'esercizio che facevamo al laboratorio di teatro in cui ti devi lasciar cadere all'indietro sapendo che qualcuno sarà lì a prenderti. Davvero, grazie! 💛

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    1. Vorrei essere contenta di quest'affinità ma non augurerei di vivere quest'incubo a nessuno, quindi non posso che dirti che mi dispiace. Mi dispiace tanto, ma mi fa piacere rileggerti. Ho visto anche che hai aggiornato il blog, passerò a leggerti! Un abbraccio!

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  4. "Che fai oggi?" ...." Vivo in funzione del cibo."
    È il mio motto quotidiano. Da quanto? Boh, neanche io so precisamente il giorno in cui tale incubo è iniziato. Pressoché due/tre anni fa sono comparsi alcuni pensieri, sempre più alimentani sono maturati, cresciuti e hanno sopraffatto me stessa...
    È una risposta che vorrei dare a tutti quando mi viene chiesto cosa faccio. Ne avessi solo il coraggio. Troppa vergogna, troppo orrore nel pensare come effettivamente sia la pura verità.
    Vivere in base a ciò che oggi mangierò, a quanti esercizi farò, a quanti km percorrerò, a quante km ingurgiterò.
    E diventa il tuo mondo, quello a cui ti sei affezionata ormai, a cui pensi troppo spesso, rifiuti inviti, cÉ e, giornate al mare, serate in compagnia, il dolce di tua mamma solo per questo stupido mondo per cui ti identifichi, illudendoti che sia la cosa più giusta da fare.

    Ho i brividi se ci rifletto bene.
    È la cosa più spaventosa è che il tempo passa, i giorni si bruciano mentre io brucio calorie.

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    1. "I giorni si bruciano mentre io brucio calorie". Dovrei tatuarmela questa frase, forse leggerla in tutta la sua graffiante verità mi sveglierebbe da quest'incubo in cui vivo da ormai troppo tempo.
      Io ricordo esattamente il giorno e l'ora in cui ho smesso di mangiare. Sono entrata in un bagno sana e ne sono uscita malata. Tante volte penso a quei dieci minuti in quel bagno come ad una visita rivelatrice, quella in cui scopri di avere il cancro o una malattia degenerativa. Dieci minuti che ti cambiano la vita, e dopo niente è più come prima. Il cibo, che era solo nutrimento o piacere, diventa il tuo più grande nemico e il tuo più grande amore insieme.
      Ma non sai l'angoscia che mi mette pensare che a ottobre saranno sette anni che convivo con questo male e ho perso tutto questo tempo senza ancora trovare la via d'uscita.
      Un abbraccio!

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  5. "Come fai a vivere così?": bella domanda. Penso che sia l'abitudine, in primo luogo, a comportarsi in un certo modo, secondo poi l'idea di abbandonare un progetto-di-vita può far scaturire un senso di impotenza piuttosto destabilizzante, non credi? Ti capisco in pieno, fidati (anche perchè il mio commento al tuo post precedente si è coordinato con il tuo post di oggi). So cosa significa investire tutto su un unico scopo. So cosa significa percepire una circolarità della propria vita, dove tutto si annulla eccetto quel progetto. So cosa significa l'infinita circolare insoddisfazione che ci si porta dietro. Arthur Schopenhauer diceva:

    «Nessun oggetto del volere, una volta conseguito, può dare appagamento durevole [...] bensì rassomiglia soltanto all’elemosina, la quale gettata al mendico prolunga oggi la sua vita per continuare domani il suo tormento»

    Mi permetto di citare il filosofo polacco Arthur Schopenhauer per descrivere meglio il fatto che la figura sofferente questo disagio vive
    la sua vita come se fosse un pendolo che oscilla perennemente tra dolore e insoddisfazione (o meglio tra “dolore e noia” come dice Schopenhauer). Da insoddisfatti ci si pone un obiettivo in termini di forme corporee ma, se lo si raggiungesse, il senso di autenticità e di appagamento che si credeva di cogliere col raggiungimento di un numero non arriverebbe mai perché “la base d’ogni volere è bisogno, mancanza, ossia dolore”.

    [Questo breve riferimento è tratto dalla mia tesi triennale, e spero che possa essere efficace nel rendere bene l'idea].

    Un'altra metafora per l'investimento piuttosto efficace è questa (sempre per merito del mio Dottor R. eh, non credere che sia così illuminata): puntare € 100 su un unico numero e perderli tutti insieme fa percepire un senso di perdita molto più grande rispetto a quella di puntare € 100 smistandoli su diversi numeri. Dovremmo imparare (anche io, in primis) a ricalibrare l'investimento, come ho già avuto modo di dirti nel commento del precedente post.

    Ti abbraccio forte.

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    1. Schopenhauer. Quando lessi il suo pensiero per la prima volta attraversavo una delle prime fasi depressive della mia vita - avevo ricominciato a mangiare ma mi vedevo enorme, però sapevo di non poter tornare a digiunare, pena il ricovero coatto - e mi sembrò scritto per me. Negli anni ho ridimensionato il mio ego, incontrando tante persone che la pensano così, che sentono che l'immagine del pendolo descrive perfettamente la loro vita.
      Di certo descrive la mia. Un continuo oscillare tra fasi di noia, indolenza, insofferenza, e poi sprofondare di nuovo nel dolore, nell'angoscia, nella stretta del dca. Che è un incubo, ma almeno è QUALCOSA, e l'unico momento in cui sento di stare bene è la breve fase in cui passo dal dolore alla noia, quando posso illudermi che ad attendermi questa volta non ci sarà la noia ma la pace, e sento che il dolore si fa meno pungente e posso tornare a respirare. È come tornare a galla dopo essere stata in apnea, salgo e posso finalmente respirare, come se non l'avessi mai fatto prima. Peccato che sia una condizione che non dura mai più di qualche mese.
      Ma il pendolo, secondo te, può fermarsi o è nella sua natura l'oscillare inesorabile?
      Un abbraccio!

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    2. Io iniziai a leggere Schopenhauer al secondo anno di liceo, prima ancora di incominciare a studiare filosofia (che iniziava al terzo anno). Non entrai direttamente dalle porte de "Il mondo come volontà e rappresentazione" (sua opera massima insieme ai "Parerga a Paralipomena"), ma lo conobbi leggendo "O si pensa o si crede", un testo forse meno conosciuto ma che tratta della religione e del ruolo del filosofo nei confronti di essa. Se hai già bene in mente il pensiero di Schopenhauer, potrai bene immaginare quale possa essere la sua opinione sul Dio cristiano. Ti consiglio di leggerlo: è piuttosto scorrevole e ne è appena stata fatta una nuova edizione della BUR.

      Non vorrei risultare pesante, ma a mio modesto parere, essendo io di base piuttosto pessimista, credo che il pendolo rappresenti per lo meno la (mia) condizione umana. Non azzardo a dire che sia così per tutti perchè non vorrei angosciare nessuno (Schopenhauer fa questo effetto a tutti) ma se devo darti la mia opinione, il pendolo continuerà infinitamente ad oscillare. Quante volte ti sarà capitato di desiderare così tanto un oggetto, ottenerlo e poi chiederti "Va bene..ed ora?". La felicità per un qualcosa a cui si ambiva ardentemente, sfugge nel momento stesso in cui si ottiene quel determinato oggetto. Pensa alla rincorsa che si fa per l'ultimo modello di cellulare uscito in commercio (esempio banale, lo so, ma piuttosto efficace): appena lo si ha tra le mani, non c'è più nulla. Si ritorna a rincorrere un altro oggetto, un altro progetto, un altro obiettivo. L'esempio del peso è piuttosto calzante anche in questo caso.

      La mia opinione però è derivata anche da una mia personalissima rassegnazione alla mia condizione psico-fisica, quindi non voglio abbattere nessuno (ci tengo a precisarlo).

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    3. Anche io sono piuttosto pessimista. In genere mi piace pensare di essere semplicemente realista e forse anche questo è soltanto un aspetto del mio pessimismo "cosmico": penso che andrà tutto male e penso che realisticamente debba andare tutto male. Non si tratta di una sensazione, si tratta di una lucida analisi dei fatti: il pessimismo è scientificamente vincente.
      Perciò, sì, anche io tendo a pensare che il pendolo sia la condizione ineliminabile di ogni uomo e che, semmai, alcuni se ne rendano conto meno di altri. Ecco perché a volte vorrei essere più stupida. Non voglio essere arrogante, non penso di essere particolarmente intelligente, ma vorrei essere una persona semplice, capace di accontentarsi, che non sta sempre a farsi domande e problemi su tutto. Il pendolo oscilla per tutti, ma non tutti diamo alla sua oscillazione lo stesso peso: a me sembra di seguirlo, di aspettare di toccare il fondo per godermi la risalita, di languire nella noia aspettando il momento in cui comincerò nuovamente a sprofondare del dolore è così via per tutta la vita.
      Grazie per il consiglio di lettura, domani lo cercherò! Sono molto affascinata dalla questione della fede - anche accademicamente, mi sto occupando dell'importanza dell'aspetto sacrale nell'evoluzione linguistica del latino - ma sono tendenzialmente atea, perciò confesso che l'argomento mi intriga moltissimo.
      Un bacio!

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  6. Cavoli quanta ragione che hai!!! Non riesco a contare quante cene, pranzi, compleanni ho saltato per evitare di mangiare ma, almeno per quanto mi riguarda, a volte e' finita in maniera peggiore...''tanto ormai non sono andata tanto vale che mi abbuffi''... Ciò nello stesso modo per cui non sono uscita perché mi vergognavo del mio peso... Purtroppo questo fa parte del gioco! Sarebbe bello poter uscire e decidere di non mangiare.. Ho conosciuto persone così ma io penso non ne avrei mai la forza... Quando parlo di queste cose mi viene sempre in mente la frase di un cartone animato, che neanche mi piace più di tanto però mi ha molto colpito per questa frase: ''non è cane e non è lupo, lui sa soltanto quello che non è''... È come mi sento io, tutti i santi giorni.. Ma forse, facendoci l'abitudine, poi pian piano si riesce ad andare avanti...:0(!! Un bacione!

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    1. Io quando esco mangio sempre, almeno il necessario per non indurre le persone che sono con me a sospettare che stia (di nuovo) restringendo. Già sono controllata quando sono grassa, figurati nei periodi in cui dimagrisco.
      Perciò quando esco metto in conto che mangerò almeno quanto gli altri. Ed è per questo che piuttosto rimango a casa, perché uscire e non mangiare non mi è concesso. Ho provato una volta ad andare con degli amici a fare l'aperitivo e a dire loro che non avrei preso nulla e me l'hanno fatta pesare per settimane. Non ce la faccio poi a sentirmi diversa, mi sento in colpa, è tutto un circolo vizioso.
      Un bacio!

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  7. Non so cosa commentare...
    dire che ti capisco è davvero tanto triste?

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    1. È triste perché vorrei che tu non mi capissi. Che, come il mio fidanzato, ti sforzassi di farlo ma non riuscissi a cogliere il punto del mio dolore. Lo vorrei perché almeno saprei che stai meglio di me, perché non vorrei condividere questa condizione di perenne angoscia con nessuno, vorrei che nessuno al mondo dovesse scoppiare a piangere per aver ingoiato una cicca senza sapere quante calorie contenesse, che nessuno dovesse sentirsi in colpa se è seduto su una poltrona e non sta contraendo gli addominali o tenendo sollevate le gambe in modo da ottimizzare anche quel tempo trascorso su una sedia. Vorrei tanto che tu non mi capissi, Sybil, e invece lo so che capisci bene, leggo tutto il tuo dolore nei tuoi post e so che è anche il mio, ma in certi casi neanche il vecchio caro detto "mal comune mezzo gaudio" sembra aiutarci.
      Ti abbraccio forte, però. ❤️

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  8. STESSI IDENTICI PENSIERI e stesso chiodo fisso tutto il santo giorno da più di un anno a questa parte, immagino solamente che cosa significhi essere prigioniere da ben SEI ANNI...
    In questo post hai riassunto praticamente tutto quello che penso anch'io, siamo letteralmente prigioniere di noi stesse.
    Vivere in funzione del cibo non ci permette di pensare ad altro, io mi chiedo seriamente a cosa penserei altrimenti... Ed il bello è che come dici tu non ci stanchiamo, e a questo punto sorge una terribile domanda: ci stancheremo mai? Ho paura della risposta sinceramente.
    È tutto verissimo quello che dici, non rifiutiamo un invito perché magari c'è veramente un impegno irrevocabile dietro ma perché "domani vedremo un numero più basso sulla bilancia e sapremo di fare la cosa giusta" questa frase dice tutto.
    È triste pensare che una ragazza così intelligente come te sia limitata a causa della prigionia autoinflitta, ma ti capisco benissimo... Anche a me da fastidio ingurgitare "calorie inutili" quando magari mi è passata la voglia e mangiare mi sembra davvero inutile e non sai quanto capisco la sensazione di crisi, perché in quei momenti davvero entriamo in crisi totale, posso capire il tuo pianto e capisco ancora di più il fatto che non hai avuto il coraggio di dire il motivo reale per cui piangevi al tuo ragazzo, e so benissimo che il groppo alla gola rimane anche dopo aver risolto tutto...
    Un altra cosa in cui mi rivedo tantissimo è il fatto che quando cerchiamo di non pensare al cibo che occupa praticamente quasi la totalità dei nostri pensieri ecco che quasi come una presa per i fondelli c'è sempre qualcosa/qualcuno che c'è lo ricorda, è incredibile.
    Per farti capire proprio in questo periodo sono circondata da persone a dieta, TUTTI parlano di dieta, persino la mia professoressa di inglese che è fissata da ben 10 anni da come ci ha raccontato... "Il cibo è una delle cose più belle della vita ma è quella che mi fa stare più male" ha detto una volta scherzosamente, ma ahimè è la triste, dura verità. Per non parlare delle mie compagne, fanno certe uscite che mi fanno cadere le braccia... " Non mangio carboidrati da... Un bel po'! " è solo un esempio delle tante cose che dice una mia compagna a dieta serrata, e a me è venuto da PIANGERE quando le sento parlare... Che amarezza!!! Scusa la digressione inutile ma è per farti capire che l'ironia della sorte di abbatte veramente su di noi!
    Detto ciò TI CAPISCO, capisco ogni tua singola parola, e ti sono vicina!
    Spero che la brutta sensazione sia passata, e spero davvero che un giorno potrai dire di essere libera, o almeno riuscire ad accettare un invito pensando che ne vale la pena e non pensare al fatto che dovrai scontare un prezzo salato per questo...
    Un abbraccio forte cara ❤️

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    1. So che il mio è un pessimo esempio per chi, come te, si avvia lungo la strada della guarigione ed ha anche una manciata di anni meno di me. Può essere demotivante leggere dei miei fallimenti, pur con tanti tentativi, nonostante le mie buone intenzioni. Però non lasciarti scoraggiare dalla mia esperienza, e prova a dare una risposta diversa alla domanda "ci stancheremo mai?". Io mi sono stancata, a dire il vero. Non ho più le forze e la voglia di star dietro alle calorie, alle bugie, alle abbuffate...lo faccio per inerzia, per abitudine, perché è l'unica cosa che so fare, è l'unico rapporto che riesco ad avere col cibo, anche se so che è quello sbagliato. Ma tu, tu puoi reagire! Puoi incanalare la tua stanchezza in una direzione diversa da quella della rassegnazione.
      Cioè, in realtà posso - e devo - farlo anche io, solo che continuo a rimandare. Perdo altri otto chili e poi guarisco davvero, faccio passare la laurea e poi riprendo la terapia, aspetto di trovare un lavoro e mi concentro su me stessa...temporeggio, e so che è sbagliato, ma è più forte della mia ragione!
      Un abbraccio!

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  9. Ti capisco proprio bene. Io sono su blogger da poco è vero ma questi pensieri li faccio da tanto. È brutto dover rifiutare gli inviti degli amici ma con questo chiodo fisso in testa non ci si può fare niente.
    Io con i miei amici ci esco per mangiare solo per pranzo e ovviamente mangio meno rispetto a loro (non ci fanno nemmeno caso da quanto sono occupati a mangiare)
    La pensiamo allp stesso modo, come tutte le ragazze che hanno commentato. Non è bello perché siamo tutte nel tunnel, ma sai che ti capiamo.
    Un abbraccio ♥

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    1. È vero, forse non farebbero neppure caso a quanto mangio io, tutti concentrati sul cibo nel loro piatto, però è un mio freno mentale. Ho sempre l'impressione che tutti mi guardino mentre mangio, che tutti controllino cosa sto mangiando e lo giudichino, sia se è troppo, sia se è troppo poco.
      So che mi capite, e mi fa tanto piacere!
      Un abbraccio!

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  10. Ma solo a me non succede questo?
    Io quando vado a "mangiare" fuori,non mangio quasi mai,cioè nel senso i miei amici sanno benissimo che mi prenderò un'insalata o un caffè o cose simili,ma sanno talmente bene come stanno le cose che mi rompono il giusto.
    Si magari ci rimangono male,ma non me lo fanno pesare,per nulla... perchè sanno che ho davvero delle difficoltà e non è un capriccio.
    Di solito se hai un buon rapporto e sei trasparente e aperta con gli altri,credo che il fatto del rinfacciare non succeda,mai. Anche perchè,voglio dire,non mangi tu,mica loro.
    Nel gruppo con cui uscivo prima sì,mi sentivo obbligata a mangiare,ma perchè non mi sentivo a mio agio con loro....
    Quindi io davvero non le capisco queste cose,boh! Capisco se siete in due,ma in gruppo!
    Comunque anche io mille volte mi sento un ingrata per trattare così tutto quello che ho,pensando a come la gente soffre...
    A mio modesto parere,non è classificare un dolore,semplicemente dovremmo farci un esame di coscienza ed essere profondamente grate per tutto quello che abbiamo,nel bene e nel male,a costo di sembrare una predica,è il mio pensiero.
    Un abbraccio

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    1. No, a me darebbe troppa ansia uscire con gli amici e non mangiare. Non mi piace sentirmi diversa e "malata", già mi danno fastidio le attenzioni che rivolgono alla mia intolleranza al lievito: nonostante dica loro che per me non è un problema andare in pizzeria e mangiare un carpaccio di pesce o un antipasto (anzi, meglio!) ma loro cercano sempre di trovare un compromesso che non contempli il lievito. Quindi, boh, mi sentirei troppo in colpa ad uscire con loro e non mangiare, poi non so mai cosa rispondere alla gente che mi chiede perché non mangi, io non parlo (quasi) mai dei miei problemi con il cibo, invento milioni di scuse piuttosto, anche con i miei genitori, piuttosto che ammettere che non mi va di cenare perché peso cento grammi più di ieri.
      So che è un grande limite trincerarsi così, e non si tratta neanche di non sentirmi a mio agio con i miei amici, è con me stessa che mi sento a disagio.
      Un bacio!

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